Questo libro è un dono di Carlo Dariol ai suoi lettori
Solo nel 1291 il patriarca rinunciò ai propri
diritti giurisdizionali. Ma l'anno successivo riscoppiò la guerra: il patriarca
occupò Mussetta e ne rivendicò il possesso.
L'ottenne? Non sappiamo. Intanto oltre Piave, in data 31
dicembre 1292 un certo Spinello, sempre da Medade, donò al Monastero del
Pero un suo appezzamento situato anche questo in Gonfo [ASVE,
b. 9 Cat. Sand. c. 535, proc. 228, n. 33; citazione in DAVIDE da PORTOGRUARO, L’abbazia
benedettina…, pp. 47, 173]. La donazione avviene cent'anni esatti dopo la
vendita di Ussinello, anche lui da Medade, di un appezzamento in Gonfo. Viene il dubbio che sia il
medesimo appezzamento di cui si è parlato poco sopra e che i documenti, copiati
e trascritti nel corso della storia, abbiano raddoppiano gli episodi, a favore
della ricchezza di notizie e a danno della verità. Ce n'è quanto basta infatti
per affermare che le due notizie sono sovrapponibili: un 1 nelle cifre
dell'anno che diventa 2, e la prima 's' del nome, di solito scritta lunga, che
viene letta come una 'p'…
Un monastero che
riceveva così tanti donativi doveva stare a cuore al patriarca di Aquileia se
per piegare la resistenza del Comune di Treviso arrivòa lanciare anche
l'interdetto su qulla città, che fu sospeso nel 1295 essendosi stabilita una
tregua d'armi.
Il documento del 10 settembre 1296 registrato sia dal Verci nella sua Storia della Marca Trevigiana [tomo IV pag.86]
sia dal Marchesan nella sua Treviso medievale [app. 10]
che riporta le pretese del Patriarca di Aquileia, ovvero che il monastero del Pero, anche se posto nel distretto di Treviso, apparteneva
(ancora) al Patriarcato di Aquileia e che la Villa di Croce apparteneva allo stesso
Monastero come una delle sue proprietà, è seguito dalle deposizioni dei testimoni
prodotti dal patriarca.
Tali testimonianze sono così riportate dal Pavanello:
S'udiva per primo il 3 Ottobre Nicolò abate del monastero del Pero,
il quale interrogato disse che non era del tutto vero il contenuto dell'articolo VII, ma che ben v'erano
in detto monastero alcune cose spettanti al Patriarca, cio` la confermazione dell'abate, la visitazione, la correzione di detto luogo ed in breve
ogni giurisdizione spirituale; che la temporale apparteneva all'Abate: ciò constava del tenore dei privilegi, e delle carte abaziali;
era ben diviso quello che spettava al Patriarca e quello che spettava al Monastero; rimanevano i legittimi publici strumenti, null'altro egli sapeva.
Ed a proposito di altri articoli egli disse che le ville di Medade [Losson] e di Meolo erano pertinenze del Monastero, che Albertino Morosini le aveva avute
dal patriarca Gregorio, che egli stesso aveva trattato col Morosini per riscuoterne i fitti. Negò che il presente patriarca Raimondo
fosse stato mai in possesso della villa di Croce, ma affermò che lo era stato il suo predecessore, il patriarca Gregorio [dal Verci]
Il Marchesan riporta invece la data del 3 novembre 1296 e specifica che il
patriarca Benedettino Raimondo non fu mai in possesso della Villa di Croce,
bensì lo era stato il patriarca Gregorio da Montelongo, il quale verso il 1260
aveva consegnato tale possesso al Nobil Homo Albertino Morosini di Venezia. Sia il Verci che il Marchesan hanno attinto al medesimo documento,
che io non ho visto; o forse uno dei due ha copiato dall'altro e io non so chi da chi. E perciò riprendo con la citazione dal Pavanello che riprende dal Verci.
Nel giorno I° di Dicembre veniva ascoltato il Maestro Buono de Labereta, il quale così parlava: io null'altro so, senonché il Patriarca aquileiese
ha il diritto di confermare l'abate del monastero del Pero e che a lui spetta la correzione e la visitazione di questo. E lo so perché vidi il patriarca Raimondo,
che v'` oggi, confermare l'abate presente , e vidi i suoi messi visitare il detto Monastero due volte al tempo mio. Interrogato sul nome loro
disse ch'erano i frati Bonifacio e Umile dei Minori Osservanti.
Ad altre domande rispose: io vidi gli uomini di questi luoghi andare alla città di Treviso davanti al podestà e render giustizia davanti a lui,
ed inoltre io vidi il Comune dei Trevisani imporre anfaria e perangaria agli abitanti e padroneggiar su di essi, come sugli altri della città
e del distretto per ventott'anni, durante i quali fui in detto monastero; udii e vidi anche che il presente Capitano di Treviso
ed il Comune, dodici anni or sono, vendettero i boschi della Martellia, e vidi spesso esser tagliati i detti boschi da uomini di Venezia il che non avevo
mai veduto prima.
Sosteneva in fine che il Patriarca possedeva la villa di Medade [Losson] con tutti i suoi diritti e pertinenze, quella di Meolo, toltine tredici masi, che si
dicevano essere dell'Avocazia al tempo di Ezzelino, e che possedeva Martegnarum, Conec..... e tutte le altre terre di detti luoghi tranne Croce ed il
Contado e l'Avocazia, che il Comune di Treviso diceva appartenere a sé com'erede di quelli da Romano. Da quanto tempo si ricordava,
cioè da trentasei anni, così stavano le cose; per la verità egli non si ricordava di privilegi, di elargizioni né d'altro,
si ricordava soltanto che Martino di Fava, gastaldo del patriarca Raimondo, aveva esercitato per otto mesi la giurisdizione temporale e spirituale .
[...]
Nel dì 11 dicembre si udiva il fratre Ariberto dell'ospitale di S. Maria dei Crociferi di Venezia, il quale sostenne che la villa di Croce
presso il Piave era stata donata senz'obblighi dl patriarca Gregorio a frate Vincenzo, priore dell'Ospedale suo, e ch'egli stesso
v'era andato una volta con un certo priore che si chiamava Oddone per affari dell'Ospedale. Sostenne inoltre che questo da quarantadue o quarantaquattro anni
percepiva le rendite di queste tere e che quasi da dieci o dodici ne godeva il dominio intero.
Nello stesso giorno il frate Giovanni Panzeto dello stesso Ospedale confermava le deposizioni del confratello ed aggiungeva inoltre ch'egli aveva
veduto i gastaldi del Patriarca affittare i loro masi in Medade, in Carpenedo, in Croce, in Gonso [in realtà Gonfo] in Medolo e nella villa detta Serpente,
ma se spettassero o no al Patriarca quei luoghi egli non sapeva, sapeva solo che il Comune di Treviso se n'era impadronito dopo la morte di Ezzelino e di Alberico.
Finalmente quel marco degli Albignoni, che era stato udito anche nel 1285 diceva di non sapere con certezza ma di credere che i monaci del Pero
si eleggessero l'abate e che il Patriarca lo confermasse, di non aver mau veduto il Patriarca nei luoghi in questione ma di avervi veduto
un gastaldo di lui, un certo Roberto di Pella, ed altri ancora, i quali vi erano stati per qualche tempo,
avevano dato in fitto i masi che il Patriarca possedeva in Medolo, Carpenedo, in Medade, in altre ville ed avevano riscossi i fitti dei detti luoghi, di boschi
e di certi prati.
Il Carpenedo che ritorna più volte nelle testimonianze sopra non è certo l'attuale paese alle soglie di Mestre, ma deve
trattarsi di qualche località vicina ai luoghi continuamente citati e di cui si è persa notizia.
In ogni caso, continua il Pavanello,
il lungo dibattito, non sostenuto da forza d'armi non ebbe altro risultato che quello d'avere in qualche modo fiaccata l'oltracotante
baldanza dei Trevigiani e di aver raffermata con una nnuova solennità la comune convinzione che il Patriarca era il primo e vero
signore delle nostre terre; quanto ai fatti poi i Trevigiani, se non intieramente, come avevano sperato, certo vi rimasero in parte, con la sicurezza
che il dominio patriarcale dovesse contrarsi o tardi o tosto entro i più angusti confini del Livenza,
perch&eacure; l'antica punta, che si spingeva fin oltre il Piave, era dovunque minacciata.
E poiché quella punta oltre il Piave era difficile da tenere, pare dunque che il patriarca avesse ceduto Croce, mirando
a tenere Mussetta e San Donato. L’interdetto su Treviso fu ritirato nel 1297 quando un nuovo arbitrato attribuì a Treviso la località.
Ma intanto è comparso un nome: Albertino Morosini. Le famiglie veneziane facevano la loro comparsa nella
storia di Croce.
In quell’anno 1297 vi era un sacerdote addetto al chiericato di Santa Croce di Piave, certo prete
Domenico, lo stesso addetto alla cappella dei Santi Ermagora e Fortunato: “Capella
Stae Crucis. Iuravit et non solvit decimam. Presbiter Dominicus. Iuravit et non
solvit decimam”.
[Archivio Segreto Vaticano, Collect., 230; edizione
in SELLA-VALE, Rationes decimarum…, p. 80]
Proseguivano le donazioni. In un altro documento datato 16
gennaio 1299 è detto che il signor Ogniben del fu Arnaldo da Cornoledo
aveva donato al monastero del Pero due masi di terreno posti in Croce
nella località del Gonfo,
dei quali si riportano anche i confini; il possesso effettivo avvenne il
3 aprile 1303.
[Cat. Sand. pr 258 n.1,3.e 1.c - notaio Tom.e Bont. di Rovarè]
Ancora un
terreno in Gonfo donato al monastero!
Dobbiamo supporre che il monastero favorisse assai tali donazioni, e che
tenesse particolarmente ai terreni in Gonfo.
Ma quello che ci interessa è che per la prima volta “Croce” veniva preceduta
dall’aggettivo “Santa”: è forse il segnale che si andava perdendo il
riferimento al toponimo originario e si stava ancorando il nome ad una croce di
ben altra levatura.
1301: «Dopo April peste, gran mortalità, 30 novembre
ad ora di Vespero gran terremoto, durò 10 giorni».
[G.B. Galliccioli, Delle memorie venete antiche profane e
ecclesiastiche, Venezia 1745]
Croce di Piave... provincia di Venezia
Dopo esser cresciuta sul
mare, Venezia stava cominciando a rivolgersi alla terra ferma; a uno a uno i
territori vicini alla laguna finivano in mano alla Repubblica e Croce finiva in
mano alle famiglie nobili veneziane. Il territorio di Croce (con Musile, che
però nonostante la presenza della chiesa di san Donato, era ancora un’esigua e
paludosa striscia di terra lungo la Piave) fu compreso in quello che fu
denominato “Dogado” prima e “Rason Vece” poi. Compito del Dogado era la
“conservazione dei diritti sopra i terreni, acque, palude, ed altri averi di
pubblica ragione”, “non meno che la tutela delle strade e canali interni della
Dominante, onde vigilare...”. La Dominante era Venezia, ovviamente.
“Fra le molte
Magistrature istituite ad esigere, a perseverare con assidua vigilanza le
pubbliche rendite del Principato occupavano luogo distinto li due Uffici delle
Rason Vecchie e Nuove”. E ancora: “Continuando nei Dogi il
diritto di far eseguire le sentenze delle già istituite Magistrature,
esercitavano questa loro giurisdizione col mezzo de’ loro Ministri, detti
Commandadori…”
Ma anche per mezzo dei
Commandadori era faticosa da Venezia l’amministrazione di questi luoghi: “Sì
fatta pratica fu in questo secolo (XIII)… riputata troppo gravosa alla
primaria dignità della Repubblica, onde a decoro, e sollievo de’ Dogi si istituì un ufficio detto del Gastaldo”.
Il termine era rubato dalla tradizione longobarda. Croce era ‘gastaldia’ almeno
dal 1152. “Tutti questi Tribuni e Gastaldi dipendevano dai Dogi che di tutto il
dominio tenevano il Governo”.
I Gastaldi
amministravano e si preoccupavano di inviare merci a Venezia: ovviamente
dovevano qua e là pagare dazio. In un quaderno del dazio sul pane e sul vino,
conservato nella Biblioteca Capitolare di Treviso, sotto la data 1302,
sono elencati i seguenti dazi: «sotto datio de Croce, 7 soldi grossi; Musil
(Frazione di S. Donà) comuni tervisii, 32 lire piccoli; S. Donato del Plavi
(Mussetta), 26 denari grossi». Quell’anno vi era stato un inverno
particolarmente rigido.
Le palade
Le “palade” erano le
barriere doganali veneziane e trevigiane poste sul Piave o sulle sue varie
diramazioni per controllare il
commercio fluviale fra i due stati: poiché Croce era al confine tra i due stati
deduciamo che qualcuna delle palade dovesse trovarsi nel suo acquitorio. Nel
1302 Venezia codificò le norme cui dovevano soggiacere le palade (Treviso
l’avrebbe fatto nel 1328): esse dovevano stare aperte solo in tempo di pace e
solo dall’alba al tramonto in modo da consentire ad appositi funzionari di
controllare sia il passaggio dei viaggiatori che delle merci, riscuotendo le
eventuali imposte. Forti multe venivano comminate a chi evitava di accostarsi
alla palada con la barca e anche per quei custodi che non ispezionavano
attentamente i carichi favorendo l’evasione fiscale e il contrabbando.
Dazi e balzelli si
aggiungevano alle decime e ai taglieggiamenti che proprietari e fattori
imponevano ai coloni, per cui a questi ultimi rimaneva appena di che
sopravvivere: bastava un’annata agraria avversa perché si verificasse una
carestia. E anche quella era una musica che non finiva mai:
1304: inondazione;
1314: una spaventosa
inondazione della Piave nell’autunno precedente è alla base di una terribile
carestia; [G.B. Verci]
1317: inondazione e scossa di terremoto;
1318: carestia;
1318-19: inverno rigidissimo, gelarono i fiumi.
...provvisoriamente sotto gli Scaligeri
La perdita di prestigio dell’abbazia del Pero andava di pari passo
col venir meno dell’autonomia da Treviso, un tempo garantita dai forti legami
con Aquileia. Cambiate le circostanze, era invece Aquileia ad aver infeudato
dei suoi beni trevigiani i da Camino. Il ruolo della potente famiglia
trevigiana rappresentò per l’abbazia un baluardo a difesa dal nuovo dominio
scaligero, affermatosi nel 1329 con la conquista di Treviso, in seguito a
una lunga guerra condotta da Cangrande della Scala.
Mentre il territorio veniva saccheggiato dalle truppe
scaligere, in data 9 agosto 1329 il
podestà di Treviso Pietro dal Verme ordinò agli uomini di Zenson, Fossalta, San
Donato e Croce di Piave di inviare a Treviso le armi e i cavalli tolti a forza
ai soldati di Can Grande della scala durante la guerra sotto minaccia di multe
gravissime; ma trovò risposte ostili dal mariga di Zenson, che temeva i signori
Da Camino, ben saldi nei castelli di Mussa, Mussetta e Sant’Armelio; in aiuto
dei locali intervenne la Repubblica Veneta.
[Pavanello: La città di Altino, Treviso 1900, p. 148].
1330: inondazione.
La notizia fornita da
Teodegisildo Plateo [Il territorio di San
Donà nell’agro di Eraclea, Oderzo 1907], ricopiata pari pari dal Chimenton,
che nel 1331 i Foscari furono insigniti del titolo di conti di Noventa – e che
nei terreni di Croce essi costruirono una cappella dedicata all’Invenzione
della Croce (come risulta da una relazione del 1922 rilasciata da don Natale
Simionato alla Curia di Treviso) – è una notizia imprecisa: il 21 giugno 1331,
Giovanni II re di Boemia, figlio dell’imperatore Enrico VII, in Parma,
ricompensò sì Nicolò Foscari di alcuni importanti servizi investendolo, a
titolo di feudo, con i suoi eredi, maschi e femmine, nati e nascituri, della
villa di Noventa, ma nella diocesi di Padova (era la Villa di Noventa
Padovana).
Forse la colpa dei due storici è di essersi fidati del loro collega
Carlo Agnoletti [Treviso e le sue Pievi,Treviso 1897] il quale riferisce che nel
1330 a Croce vi era un sacerdote in cura d’anime per merito della famiglia
Foscari; egli accompagna la notizia che l’Oratorio, ricostruito nell’anno 1331, era dotato di “prebenda”
valutata in lire 8, ma le famiglie dovevano contribuire per il suo
mantenimento; e che, quando nel 1334 non risiedeva più il Sacerdote, fu un
pescatore a pagare la quota della prebenda al vescovo di Treviso; e che nel 1336 v'erano 20 abitanti.
Esser finiti sotto
l’orbita degli scaligeri comportò misure fiscali e obblighi militari
sicuramente indesiderati. Un atto del 6
febbraio 1334 obbligava i seguenti paesi a mandare guastatori a
Bressello, dove si trovava Mastino della Scala, a proprie spese: Croce di Piave
1, Negrisia 2, Ponte di Piave 2, Noventa 1, Chiarano 2, …
[G.B. Verci, Storia della Marca Trevigiana, Venezia 1797]
1335: scossa di terremoto.
1339: definitivamente sotto la Serenissima
Il dominio degli
scaligeri non durò a lungo: proprio il possesso di quest’area e dei castelli di
Oderzo e Motta di Livenza determinò una guerra con Venezia, guerra che si
concluse il 24 gennaio 1339 con il passaggio
di Treviso e tutti i suoi territori sotto la signoria di Venezia. Più
propriamente si trattò di un atto di dedizione. Croce di Piave politicamente
diventava territorio della Repubblica.
Il suo territorio era
ancora in gran parte ricoperto di boschi, come rivela un resoconto finanziario
del comune di Treviso dell’anno 1340 – Treviso da due anni era
l’oggetto delle mire dei signori da Carrara, signori di Padova – da quale risulta che le rendite dei boschi
«di sotto Arzone, di Mussetta, di Navolè, di Marteia, di Onolè, di San Donà, di
Croce, … » fruttarono un incasso complessive di lire 2500.
Una singolare
carestia si verificò nel 1340 o 1341,
causata da sciami di locuste, provenienti dal Friuli, che a primavera inoltrata
divorarono ogni sorta di erbe e persino la corteccia degli alberi. Contro il
flagello era impotente ogni provvedimento: le autorità offrirono persino un
premio per ogni stajo di insetti uccisi (circa 10.000 lire del 1995 per ogni
75-80 kg.).
Nel 1343 un’inondazione.
Nel 1347 una carestia causata
da una cattiva annata agricola, che favorì il diffondersi l’anno successivo di
una delle epidemie più gravi della storia (la famosa peste del
Boccaccio, del 1348): il morbo si
manifestava in modo così virulento che in tre giorni portava alla morte chi ne
era infettato ed era talmente contagioso che uccise quasi i 2/3 degli abitanti
del Veneto.
Per quanto si andasse
disboscando lo scenario rurale non si andava modificando di molto.
Contrabbando di pesce
Gli atti di un processo tenutosi nella primavera del 1350
davanti al signor Marino Morosini, onorabile podestà di Lio Maggiore e Minore,
di Equilo (l’odierna Jesolo paese) e di Pineta ci consentono invece di aprire
uno squarcio sul contrabbando di pesce in
quegli anni e sull’esistenza a Croce di una taverna. La taverna era quella
dell’oste Pietro e costituiva una sorta di stazione di posta per i
contrabbandieri che, attraverso il Sile, la Fossa Vecchia e la Fossa Nuova (che
unite e raddrizzate andranno a formare un secolo dopo la Fossetta) e il Piave,
andavano a prendere il pesce a Equilo e lo rivendevano nel Trevigiano senza
pagare dazio. Su di un episodio in particolare indaga il podestà di Lio
Maggiore, quello che riguarda un tal Sagatario che sul suo burchio lungo il
Sile ha arruolato Nicoletto, Tiziano e Schiavo per il suo contrabbando. Dopo
essersi portati a Marteggia per pernottare presso la taverna di Marco ‘Melone’,
e aver la mattina seguente scaricato il pesce che avevano nel burchio, i tre
reclutati sono partiti per Croce lasciando a terra Sagatario che li ha
raggiunti più tardi presso la taverna di Pietro; da qui sono ripartiti tutti
verso Equilo con un altro burchio. Lì hanno comprato una grossa partita di
pesce, con la quale hanno risalito il canale della Povegliola ed essendosi fermati
lungo il ritorno sono tornati a Croce che già faceva buio. A Croce hanno
mangiato e bevuto, dopo di che Sagatario ha detto loro: «Andate al Montiron e
aspettatemi là con la barca», mentre lui rimaneva all’osteria con il pesce. I
tre così hanno fatto ma giunti al Montirion sono stati catturati e portati a
Lio Maggiore, davanti al signor podestà.
Nelle loro deposizioni i
tre tirarono in ballo l’oste Pietro di
Croce che fu chiamato a sua volta a testimoniare. Pietro non era solo il
proprietario della taverna dove i contrabbandieri si erano dati appuntamento ma
era fortemente sospettato di essere in combutta con Sagatario. Il 18 aprile, a
Lio Maggiore davanti al podestà, egli dichiarò che un giorno gli si erano
presentati alla sua riva Sagatario, Benato, Necio e Giuliano, soggetti noti per
la loro attività di contrabbando, che gli avevano chiesto del pane, del vino e
altre cose di cui avevano bisogno. Lui le aveva date loro e quelli avevano
pagato regolarmente, dopo di che si erano messi a trafficare con il pesce, che
comperavano a 10 soldi il carro (pro plaustro) di qua dell’argine (de
sotum Arçonum) e rivendevano poi in Trevigiana per 40 soldi. Lui comunque
non era coinvolto in alcun modo in questi traffici. Quando gli venne chiesto se
fosse al corrente che qualcun altro esercitasse il contrabbando da quelle
parti, rispose di sì e fece il nome di Cipriano.
Se non partecipava
direttamente al contrabbando, certamente sapeva molte cose perché lo stesso
giorno così depose Donato, figlio del defunto Nicolò Baroldo di Mazzorbo. Una
volta egli se ne veniva con il suo sandalo lungo il Caligo di ritorno da Equilo
quando, trovandosi alla curva del canale, si è sentito chiamare da Pietro di
Croce e da Marco figlio di ser Cristiani, di Trevigiana, che gli hanno chiesto
un passaggio fino a Lio Maggiore. Lui li ha fatti salire sulla sua barca e una
volta a bordo i due si sono messi a parlare tra loro, dicendo che Sagatario,
Bordolo, Peliccia, Benato e Giuliano per tutto l’inverno non avevano fatto
altro che andare su è giù per il Piave di contrabbando.
Come andò a finire il processo? Non lo so.
E che altro si sa di
questo Pietro da Croce? Con molta probabilità è il Petrus de Cruce,
figlio del fu ser
Conradus, che il 29 maggio 1348, quando già a Venezia infuriava la
terribile Peste Nera, in quel di Torcello nomina suo procuratore generale
Daniele Boneto, presente alla stesura del documento. L’incarico riguarda il
recupero del credito che egli ha nei confronti di Pietro Cortesio, ma anche il
compito di rappresentarlo in ogni vertenza legale. La morte cammina e Pietro
pensa a recuperare i crediti.
Un altro documento
rivela che il 31 luglio 1353 il figlio di un certo Primirano, testimoniando su
richiesta di Daniele Boneto nella causa da questi intentata contro Pietro da
Croce davanti al podestà di Torcello Crescio Molin (1353-1354), afferma che
Marco (il Marco Melone citato sopra), fratello di Pietro da Croce, ha sistemato
il detto Daniele alla posta della palata di Marteggia e gli ha inoltre ceduto
in affitto la taverna del luogo per 24 lire di piccoli annue. Il testimone è in
grado di dire ciò perché era presente, però non è al corrente di eventuali
altri accordi intercorsi tra i due. Il 14 agosto il podestà proroga a sabato 17
dello stesso mese il termine concesso al Boneto per presentare le sue ragioni
contro Pietro. Pietro ha forse ceduto ad altri la taverna in Marteggia che il
fratello ha dato in affitto al Boneto? Oppure ha venduta la propria senza affidarsi al Boneto, che pure aveva
nominato suo procuratore nel ’48?
Nel frattempo, il 1°
agosto 1353, l’oste Pietro, senza revocare gli incarichi precedentemente
affidati ad altri, ha nominato suo procuratore frate Nicolò, priore del
monastero torcelliano di S. Pietro Casacalbo.
L’oste Pietro era dunque un personaggio di una certa importanza locale,
e comunque uno che si dava da fare.
[Oscar Zambon, Tra Marca e Dogado, pp. 132-141]
Da questa vicenda Carlo Dariol
ha tratto la prima delle sue Dodese storie in Crose.
Riprendiamo la musica delle calamità.
Nel gennanio del 1359 cadde così tanta neve che i buoi
non riuscivano a trainare i carri. In quell’anno vi fu anche una inondazione.
Nel 1361–1363 un pestilenza di
una violenza pari a quella del ’48 quasi dimezzò la popolazione della
regione.
L’anno successivo (1364) si ripetè l’invasione di
cavallette: gli sciami erano così sterminati che impedivano a volte il transito
per ore da un luogo all’altro, e ovviamente lasciavano il terreno spoglio
di ogni forma di vita vegetale; quell’anno fu anche avvertita una scossa di
terremoto.
Nel 1368 ancora una inondazione.
Nel 1372 si diffuse una pestilenza, la cui causa fu ravvisata in
«un maligno aspetto di Saturno e di Marte, l’uno nel segno di Vergine e l’altro
in Gemini dove non hanno dignità alcuna».
E ancora guerra.
I desideri di rivalsa
degli Scaligeri, le ambizioni dei da Carrara, le discordie fra i da Camino in
quel di Oderzo e le antiche rivendicazioni dei patriarchi aquileiesi produssero
negli anni successivi una serie di guerre e di mutamenti di regime che
desolarono tutto il Basso Veneto: milizie mercenarie battenti più bandiere vi
commisero impunentemente saccheggi, le violenze e i soprusi. Le ostilità si
aprirono nel 1379 allorché Venezia
si trovò a fronteggiare una lega formata da Francesco da Carrara, signore di
Padova, la Repubblica di Genova, il patriarca di Aquileia e il re d’Ungheria.
L’aspro conflitto si chiuse con la pace di Torino (1381), in cui Venezia,
resasi conto di non poter conservare il
possesso di Treviso, preferì cedere la città e il suo territorio a Leopoldo
duca d’Austria pur di non vederlo soggetto ai padovani.
Il dominio austriaco fu
però brevissimo poiché Francesco da Carrara nello stesso anno (1381) cominciò
a occupare il territorio e stringere d’assedio Treviso, sicché il duca
d’Austria preferì venire a un accordo e nel 1383 gli vendé sia la città che il
suo distretto.
A minare la tranquillità
degli abitanti di Croce, più che il mutar dei signori, fu un’altra pestilenza nel
1382, attribuibile questa volta a una «horrenda cometa di longhezza, quanto si
poteva misurar con gli hocchi di 20 palmi», e quindi
un’inondazione nel 1383.
I da Carrara non
riuscirono a tenere saldamente i territori da poco ottenuti: nel 1388 si sollevò Treviso, imitata dai
centri minori, che approfittarono di un guerra fra quel casato e i Visconti di
Milano, per cui Treviso ritornò a far parte della Repubblica di Venezia, e
questa volta in modo duraturo.
Completiamo il secolo
con una carestia dovuta a una cattiva annata agricola nel 1390, in bellezza con una pestilenza nel 1400.
Fa quasi ridere la notizia che alla fine
del XIV secolo Croce godeva di numerose prerogative e si estendeva su ben
1320 ettari, per la maggior parte coperti da boschi.
Venezia cominciava ad esercitare la sua influenza sull’abbazia del Pero,
come rivela l’appartenenza dei cognomi degli abati alla storia veneziana.
All’inizio del XV secolo i terreni che per oltre un
secolo erano stati amministrati direttamente dai monaci furono ceduto ‘a
livello’ (cioè in affitto) al patrizio veneto Giovanni Bragadino [ASVE
Catastico Sandei proc. 258 n.1,3.e 1.c - notaio Tom.e Bont. di Rovarè]. In
particolare, il 18 marzo 1400 l’abate del Pero Giovanni Vitturi stipulò
con Vettore detto Turco q. Crescimbene originario dalla padovana ma abitante in
Fossalta il contratto di fittanza di un manso a Croce, composto di otto
appezzamenti
[ASTV, Notarile I, b. 167, notaio Coneglano q. Giovanni de
Coneglano, q. 4, c. 29v]
Del 9 settembre 1409 è un decreto del
podestà di Treviso che obbligava le Ville lungo le sponde del Piave di
provvedere a riparare o costruire solidi argini per scongiurare gli
straripamenti esimendoli dai gravami fiscali.
[P. Davide: Abbazia di Monastier, pag. 70]
Nel 1429 il
beneficio di Santa Croce di Piave risulta goduto dal canonico trevigiano
Giacomo Cavalli, il quale incaricò per la celebrazione della messa festiva il
rettore di Zenson, prete Agotino Rosso.
[ASTV, Notarile I, b. 239, q. 9,
8 febbraio 1429; citazione in PESCE, La Chiesa…, II, p. 166]
Nel 1434 Giacomo
di Bartolomeo Barozzi, nipote dell’abate del Pero e suo procuratore, consegnava
al comune di Treviso la dichiarazione delle condizioni di estimo, conenenti
l’elenco dei beni dell’abbazia: l’abbazia possedeva beni in villa di Barbarana,
in Riva di Predancino, in Zenson, a Levada, il bosco di Frassenè, il bosco
della Selva di Vallio… e nel paese di Croce, dove erano proprietà dell’abbazia
due mansi e una chiusura di 2 campi; mentre dall’altra parte della Piave, in
corrispondenza dello stesso paese di Croce, c’era un altro manso di 20 campi,
in quel momento disabitato.
[Ivano Sartor, L’abbazia di Santa Maria del Pero pag. 99]
Da un documento del 1437
risulta che l’abate Barozzi nominò suo speciale procuratore il dottore in medicina
Vigilio da Treviso per recuperare il credito di 22 ducati d’oro dovutogli da
Antonio detto Barba da Croce per affitti [ASTV]). L’abbazia del Pero stava
vivendo anni di forte crisi. Nel 1444 il monastero appariva completamente vuoto
e l’abate Barozzi si trasferì a Treviso. In seguito tentò di riprendere la vita
del cenobio, nel 1449 è documentata infatti la presenza di tre monaci oltre
all’abate; alla morte di questi, nel giugno del 1449 venne chiamato a
succedergli il giovane Leonardo Barbo, giovane monaco del Lido, nipote di
Pietro Barbo, animato delle migliori intenzioni, che però morì improvvisamente
a tre mesi dalla nomina, ancor prima di prendere possesso dell’abbazia. Fu
eletto nuovo abate-commendatore l’ancor più giovane fratello di Leonardo, il tredicenne
Giovanni, che non si trovava ancora nello stato religioso. Ed è forse dovuta a
questo suo status la spiegazione del motivo per cui il pontefice Niccolò
V intervenne con una bolla a mutare il regime giuridico del monastero
trasformandolo in Comenda [Catastico Sandei]. Il giovane, ydiota quia
est ignorantem a detta dei tre monaci rimasti, in pochi anni alienò molti
dei beni dell’abbazia impoverendola irrimediabilmente e arricchendo familiari e
parenti.
Per una trattazione completa dell’argomento vedi
CARLO DARIOL - Storia di Croce Vol. I - IL PAESE DELL'INVENZIONE
dalle origini all’arrivo di Don Natale (1897), Edizioni del Cubo
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