Prologo
Rinnovando
la serie dei casi che vedono paesi con una storia e un’anima diventare
addentellati amministrativi di entità più anonime, Croce di Piave attualmente è
frazione di Musile; anzi, a voler anticipare le vicende finali della storia e
della toponomastica, Croce-di-Musile oggi è frazione di Musile-di-Piave. Tutto
ciò è in gran parte il risultato della burrasca napoleonica che cambiò il
sistema amministrativo del Veneto; ma determinante fu la successiva
restaurazione asburgica che nominò Croce di Piave, più estesa e più popolosa,
frazione di un Comune che, per non essere citato come “il musil” (=il recinto),
veniva in quel momento meno ignominiosamente citato come “San Donato di là”
(della Piave) in contrapposizione a “San Donato di qua” (della Piave),
denominazione che rivela come, agli amministratori asburgici che da Vienna
guardavano verso i confini dell’impero, “il musil” risultasse una semplice
estensione oltrefiume di una realtà maggiore sviluppatasi e distintasi sulla
riva sinistra (di qua) del Piave: nient’altro che “un pleonasmo di San Donà”,
come avrebbe detto nel 1922 don Natale
Simionato, il parroco più longevo e leggendario della storia di Croce di Piave.
Seguirono altri piccoli oltraggi, non ultimo di importanza il furto del
complemento di specificazione, per cui Musile divenne Musile-di-Piave e
Croce-di-Piave fu ridotta a Croce-di-Musile.
Croce di Piave, diocesi di Treviso, provincia di Venezia,
Cominciamo dal primo complemento
di specificazione, il più naturale, il più semplice:
...di Piave
Croce si trova alla destra del
Piave, in prossimità delle sue ultime anse e prima che esso diventi una dritta
canna puntata verso il mare… Sappiamo tutti che quella è una canna artificiale
che risale al XVII secolo. Prima il Piave era libero di… Prima quando?
Forse è bene cominciare
dall’inizio. All’epoca Romana, in cui proliferarono gli scrittori? No, lì forse
è troppo prima: gli storici romani
Tito Livio, Strabone, Polibio, Plinio il Vecchio non fanno mai riferimento al
Piave. Non c’era il fiume a quel tempo? Certo che c’era, solo che le sue acque
si confondevano con quelle del Sile e perciò anch’esso veniva confuso col
‘Sile’. Pare che i Romani lo chiamassero ‘Alassum’ [verificare la notizia].
Il
nome ‘Piave’ compare per la prima volta nei ‘Carmina’ del vescovo di Poitiers
Fortunato Venanzio (nato a Valdobbiadene verso il 530 e morto nel 617, poi
santo), che lo incluse tra i fiumi veneti nelle relazione di un viaggio «de
Ravenna progrediens Padum, Athesim, Brintham, Plavem, Liquentiam,
Tagliementumque», ossia, ‘partedendo da Ravenna, il Po, l’Adige, il Brenta, la
Piave, la Livenza e il Tagliamento’. (=raccontando del viaggio fatto nel IV
secolo da Gregorio vescovo di Tours? Controllare la notizia). Qui è il Sile che
manca dall’elenco. Lo stesso Fortunato Venanzio torna a nominare il fiume
parlando dell’amico e compagno di studi Felice, primo vescovo di Treviso, che
nel 569 andò incontro ‘a Lovadina, presso il fiume Piave’, ad Alboino, re dei
Longobardi. (Il gesto permise a Felice di veder risparmiata, a differenza di
altre, la propria chiesa dalla devastazione ed anzi di vederne aumentare il
territorio, inglobando parte delle diocesi di Altino e di Oderzo). [Controllare
l’esattezza della citazione]
L’episodio dell’incontro tra
Felice e Alboino “…ad fluvium Plavim” è raccontato anche dallo storico dei
Longobardi, Paolo Diacono (720 ca – 799), nella sua Historia Langobardorum
[libro II, par. 12]
Il Piave viene nuovamente nominato
nella ‘Cronica’ del Diacono Giovanni (XI sec.) alla data del 71? [controllare
il riferimento], in occasione degli accordi tra il primo doge di Venezia,
Paoluccio Anafesto, e Re Liutprando dei Longobardi nello stabilire i confini di
Venezia . In questo e nei documenti successivi, quello che non sfugge è una
certa confusione che allora esisteva tra Sile e Piave; ambiguità che trova
origine nell’antica configurazione del fiume, che scendeva dalla sorgente privo
di arginature, lasciando le acque libere di scorrere in numerosi rami e
rigagnoli, definiti nel complesso Piave. Nel loro libero scorrere queste acque
venivano a confondersi con quelle del Sile, che da Treviso scendeva verso la
laguna in direzione di Altino.
Che significa Piave? Alcuni sostengono che venga dal tedesco ‘ablaufen’
(=correr giù), altri lo fanno derivare dal longobardo ‘plow’ che indica lo
scorrere delle acque; altri ancora ritengono che sia stato chiamato ‘Flavio’ in
onore di Flavio Ostilio che governò Belluno nel 110 a.C., e che il nome si sia
corrotto poi in ‘Plavio’ e quindi Piave.
[O. Sottana, Storia millenaria del Piave, Treviso 1988].
E ormai che abbiamo fatto il salto all’insietro nel tempo, approfittiamone per
dare un’occhiata alla regione dove Piave e Sile si confondevano, ai confini
della laguna veneta, allora molto più estesa dell’attuale: il territorio è
caratterizzato da valli, barene e paludi ad eccezione un tratto ricco di boschi, una fascia boschiva (la selva
Fetontea) che giunge fino al Livenza, al margine meridionale della quale
corre la via Annia, la strada consolare romana che collega Roma con Aquileia e
segna il confine tra la terra de boschi e le acque della laguna.
(La via Annia)
La via
Annia, dritta come un fuso secondo i dettami dei “manuali delle costruzioni stradali”
di Roma, aveva avuto un ruolo importante nella ‘romanizzazione’ del Veneto.
Aperta dal pretore Tito Annio Rufo, da cui aveva preso il nome, nel 131 a.C. a
prosecuzione della via Popilia, l’Annia partiva da Adria e raggiungeva Aquileia
passando per Patavium (Padova) e Altinum (Altino), nel cui agro entrava
presso l’attuale località di Marghera; proseguiva poi parallela alla laguna
fino al Piave, in direzione di Iulia
Concordia (Concordia) e a Concordia confluiva nella via Postumia.
Nell’odierno comune di Musile essa «tagliava le Cassinelle e costeggiava il
Gorgazzo per circa due chilometri» [Vittorio Galliazzo I ponti romani sulla via Annia]: la Annia corrisponderebbe pertanto
all’attuale via Emilia, come attesterebbero alcuni reperti (anfore e vetri)
ritrovati recentemente nelle sue prossimità. Ma poiché tale via era spesso
invasa dalle acque della laguna, in epoca più tarda ne fu tracciato un percorso
alternativo, arcuato verso nord, come confermerebbe il recente ritrovamento dei
basamenti di piloni e di travi di legno di un ponte romano in località Ponte
Catena a Meolo; questo percorso attraversava il Piave qualche chilometro più a
nord, la dove un pass, cioè un
traghetto – oggi un ponte a pagamento tra Fossalta e Noventa – ne segna ancora la posizione. Per certo, la
via Annia, arrivata al Piave all’altezza dell’attuale ponte tra Musile e San
Donà, nei tempi di piena del fiume veniva abbandonata per raggiungere più a
nord il predetto pass, e ritornava
poi a riprendere sulla sinistra del fiume la grande via romana.
Lungo il percorso della Via Annia esistono oggi in vari comuni diverse ‘via Emilia’,
cartelli stradali dedicate dalle amministrazioni locali a questa via, lungo
tutto il suo percorso che allora per molti tratti fu solo ipotetico perché fino a pochi decenni fa essa era nota col
nome di via Emilia Altinate per via di un confuso passo di Stradone. La
riattribuzione corretta del nome ‘Annia’, risalente a qualche decennio fa, non
ha impedito ai vari tronconi di ‘via Emilia’ di continuare ad esistere nelle
toponomastiche di vari Comuni, tra cui Musile.
Ci siamo col fiume e la zona? Ora giungiamo al sostantivo:
Croce…
È probabile che le due
‘Annie’, quella dritta come un fuso e l’arcuata più a nord, fossero collegate
da qualche strada, alla destra del Piave. Formava questa strada una specie di
croce con altre strade minori? Possibile.
Lungo questa strada che
congiungeva le due ‘Annie’ – circa a metà tra le due, dove oggi corre la
ferrovia, come fanno pensare le mappe del ’500 – sorse l’antica “croce”. Era
una croce di legno o un crocicchio di strade? Qualcuno ritiene che fosse una
croce cristiana (e quindi di legno), resto di un
tempietto che i legionari convertiti avrebbero costruito lungo la via Annia
(in realtà a metà tra le due ‘Annie’), andato poi distrutto; forse erano i
resti stessi del tempietto a conservare nella pianta il ricordo della croce (e
quindi una croce di pietra); probabilmente si tratta di una leggenda legata
alla parola “invenzione” (dal latino invenire,
cioè “ritrovare”), parola che, accostata in epoca rinascimentale alla
denominazione “S. Croce”, oggi appartiene al titolo della chiesa.
Secondo lo storico
trevigiano Carlo Agnoletti, il nome sarebbe di origine più tarda e dovuto a una
croce (di legno) eretta dai benedettini della Pieve di
San Mauro di Noventa, sul posto dove sarebbe stata in seguito costruita la
chiesa per la gente del luogo affidata alla loro cura pastorale. Forse non era
necessariamente la segnalazione di un luogo sacro perché a quei tempi vi era
l’uso di erigere una croce anche per segnare i confini di una proprietà. Se
teniamo conto che la parrocchia di Noventa venne eretta nel 1152, e che i
benedettini erano nei paraggi (a Monastier) da più di un secolo, essi avrebbero
dovuto collocare quella croce tra l’XI e il XII secolo. E invece le origini di
Croce sembrano più antiche. L’Agnoletti si è macchiato di molti errori storici
e questo dovrebbe rientare nel numero.
La versione più
attendibile è che “croce” sia un toponimo, ossia un nome legato
alla realtà geografica: del
resto i nomi dei paesi vicini a Croce indicano tutti conformazioni e situazioni
geografiche: Fossalta, Mussetta, Musile, Pralongo, Ponte di Piave. Nutrendo
dubbi sul crocicchio di strade, così rare un tempo e così mal tenute, vien più
naturale pensare a una “croce del Piave”, lì dove sarebbero confluiti in un
unico letto due rami del Piave, o dove un unico ramo si sarebbe diviso in due o
dove addirittura i due rami si sarebbero intersecati a formare una croce; non
stupisca quest’ultima ipotesi: se ‘nomina sunt consequentia rerum’, e dato che
una croce è diversa da una confluenza e da una biforcazione, e poiché in
antichità la Piave non era irregimentata ed era libera di mutare corso e
invadere la campagna a piacimento, è dunque pure possibile che le sue acque
formassero una X.
Tra boschi e paludi
Numerose fonti (Giovanni Rossi
all’inizio dell’Ottocento, ripreso poi dal Cicogna) parlano di una grande
foresta a nord di Croce, “la famosa selva di Fetonte appartenente alla poi
distrutta città di Altino, [che] si estende[va] fino a
comprendere la terra chiamata poi di Monestier, passando appunto per la linea
delle così dette dipoi Valli di Casa Tron e da Riva su pel canale ora Fossetta
da un lato, per Fossalta, Zenzon, s. Andrea di Barbarana; e per l’altro per la
linea del fiumicello Meolo, e perl Sile […] Dovunque in questa linea
alla sinistra del Piave trovansi traccie dell’antichissima continuazione
boschiva. Parecchi luoghi appellansi Bosco, o Busco tutt’ora anche alle opposte
sponde […]”
La via del Bosco che attualmente attraversa
il centro di Croce può essere un indizio… ma anche no: il bosco in questione
potrebbe essere creazione più recente dei veneziani che dominarono il paese
fino alle metà dell’Ottocento.
Croce si colloca a metà tra i
boschi e la laguna, e la sua vicenda corre sospesa tra gli avvenimenti del
basso trevigiano e le sorti della laguna.
Nel 168-169 d.C. Quadi e Marcomanni invasero
Oderzo, si registrarono quindi le funeste invasioni delle truppe barbare
durante il regno di Gallieno (260-268) e di Aureliano (270-275). Il
Cristianesimo, giunto tardivamente nel Veneto, lasciando dietro di sé poche
tracce di martirio, trovò organizzazione diocesana prima della pace
costantiniana solo nella città di Aquileia, Padova e Verona. In Altino la
presenza di un vescovo, Eliodoro, data solo a partire dal 381.
Scrive Teogisillo Plateo [Il territorio di San
Donà nell’agro di Eraclea, 1907]: “Quando la stella del romano impero
volgeva al tramonto imperversarono le persecuzioni contro i cristiani.
Seguirono quindi le irruzioni barbariche e le lotte scismatiche dell’arianismo,
e così le più cospicue famiglie di Aquileia ripararono a Grado, quelle di
Concordia a Caorle, di Oderzo a Melidissa, di Altino a Torcello, di Padova a
Malamocco e Chioggia e di altri luoghi in altre isole meno importanti”.
Immaginiamo
che i pochi abitanti presso la “croce del Piave” (che ad aver documenti si
sarebbe potuto citare qui uno per uno tanto eran pochi), si spinsero dunque,
come quelli di Oderzo e di Altino, verso il litorale, verso le isole della
laguna. Magari non tutti, magari solo alcuni… Gli altri, nascondendosi tra le
acque della laguna, piegandosi come il giunco alla fiumana per poi riergersi,
si saranno mescolati coi barbari e nelle vene degli attuali abitanti di Croce
scorrerebbe sangue venetico e barbaro.
In
seguito, ma molto in seguito, almeno cinque-seicento anni dopo le prime
invasioni,il nome
della località, già indicata con crocevia, crosera o luogo della croce, complici
i benedettini e la loro croce (di legno o di pietra) presso il fiume, sarebbe
stato associato alla
“Santa croce” cristiana; e quando fu eretta la parrocchia (1509),
nelle scelta dell’intitolazione della Chiesa si volle far riferimento all’invenzione (= ritrovamento)
della croce per antonomasia, quella del Signore.
Al civile però il paese rimase sempre “Croce di Piave”: Gastaldia di Croce di Piave, Villa di Croce…
A convalida dell’ipotesi ‘toponomastica’ vi è la considerazioni che in tutti i documenti
storici il titolo della parrocchia è sempre “Santa Croce” (e in seguito
“Invenzione della Santa Croce”) in Croce di Piave, dove sono ben distinti il
“titolo” della Chiesa (“Santa Croce”) e il “nome” della località in cui si
trova (“in Croce di Piave”).
Ritorniamo al tempo delle invasioni barbariche.
Nel V secolo cominciano ad
apparire gli episcopati di Treviso e Oderzo, sorti in un contesto politico
dominato dalla presenza dei nuovi conquistatori, dapprima i Goti e poi, dal
569, i Longobardi che resteranno presenti come ceto dominante dal VI all’VIII secolo.
I profughi locali intanto (ancora
il Plateo): “[…] non trovando punto sgradevole il soggiorno
dell’estuario, o temendo nuovi tormenti nella terra ferma, fissarono nelle
isole la loro dimora […]” Gli isolani, rafforzati dai nuovi abitatori, e
animati dallo spirito d’intraprendenza loro impresso dalla vita avventurosa del
mare, fecero tesoro delle cognizioni utili importate e si affrettarono ad
istituire una consociazione fra le isole per provvedere alla difesa dai nemici
esterni e per regolare nel tempo stesso le faccende interne.
Aggregate le isole minori alle maggiori, si contavano, in antico, sette capoluoghi
corrispondenti ai sette lidi di Grado, Caorle, Melidissa, Torcello, Malamocco e
Chioggia, che Plinio, nella sua Storia naturale, distingue col nome di sette
mari. Questi capoluoghi avevano il loro porto che serviva anche alla terra
ferma, cioè: il primo ad Aquileia, il secondo a Concordia, il terzo ad Oderzo,
il quarto ad Altino [...] Si può quindi stabilire che, nel V secolo
dell’era cristiana, l’estuario cessò d’esser un luogo a disposizione del primo
occupante e i lidi cessarono la loro soggezione alle Città contigue, affermando
la loro costituzione di Stato libero, retto colla forma di repubblica
federativa democratica.
Alcuni scrittori assegnano, alla consociazione dei veneti secondi, la data del 25
Marzo 421, in cui ebbe luogo la consacrazione della Chiesa dedicata al Beato
Giacomo Apostolo a Rialto, compiuta coll’intervento dei vescovi Epodio I
pastore di Opitergio, Severino di Padova, Ambrogio di Altino, e Giocondo
di Treviso i quali estendevano la loro giurisdizione ecclesiastica alla nuova
Venezia marittima.
Popolo, clero e nobili di ciascuna delle isole maggiori riuniti in assemblea generale
con voto palese libero eleggevano il loro capo col titolo di Console, investito
dalle funzioni di Magistrato locale colla prerogativa di membro del governo
federale.
Le grandi divisioni della giurisdizione erano segnate dai fiumi, cioè: la I
andava dall’Isonzo al Tagliamento, la II dal Tagliamento al Livenza, la III dal Livenza al
Piave, la IV dal Piave al Sile, la V dal Sile al Dese, la VI dal Dese all’Adige”.
Il territorio “della croce del Piave” apparteneva dunque alla IV giurisdizione e
il suo capoluogo di riferimento era Malamocco. Ci abitava qualcuno? Difficile dirlo
Ancora Plateo: “Le isole incominciarono ad avere edifici importanti coi loro vescovi
soltanto dopo la discesa d’Alboino.
Da questi fatti, e in particolare dal sicuro asilo che gli abitanti del
continente veneto trovarono nelle lagune, si apprendono tre cose interessanti;
e cioè:
a) che l’estuario era impenetrabile agli oppressori dalla terra ferma;
b) che nelle isole l’aria era buona, l’acqua potabile e i mezzi di vita abbondanti;
c) che la libertà e l’ospitabilità regnavano sovrane.
Secondo Vitruvio e Strabone la Venezia inferiore da Altino ad Aquileia era intersecata
da fiumi, canali e paludosa; secondo altri, accanto alle paludi vegetavano
rigogliosamente estese boscaglie e terreni coltivati e nelle sabbie marine, ora
inutilizzate, facevano pompa delle superbe pinete da Ravenna alle foci del Tagliamento.
Non v’è dubbio che le isole, difese dalle acque marine e fluviali, per le
milizie di terra di quei tempi fossero vere fortezze inespugnabili, tali
essendo state dichiarate dallo stesso Attila, che non vedeva ostacoli
insuperabili ai suoi ardimenti.
Quanto alla bontà dell’aria, lo stesso Vitruvio, scrittore dei primordi dell’era
cristiana, facendo il confronto delle paludi pontine colle veneziane, ebbe ad
affermare che quest’ultime dovevano la salubrità al beneficio del flusso e
riflusso del mare, che distruggeva i germi di putrefazione. Questa opinione
trovò conferma 600 anni dopo nelle lettere di Cassiodoro. D’altra parte, le
selve antiche e i pineti marini non dovevano essere estranei alla bontà
dell’aria”.
Una descrizione particolareggiata a tinte vivaci di Melidissa e delle altre isole
nei primordi del VI Secolo l’abbiamo dalla XXIV lettera della preziosa raccolta
di Cassiodoro, l’eccelso uomo di Stato, Prefetto di Teodorico, alla quale è
attribuita la data del 520 circa.
Questa lettera esprime impressioni dell’autore di essa ricevute anni prima in una sua
visita all’estuario, ed è diretta ai Tribuni delle lagune venete:
Abbiamo ordinato in Istria che venga inviato a Ravenna
del vino e dell’olio essendo riuscito abbondante il raccolto di questi prodotti
nello scorso anno. Voi possedete navigli a sufficienza, perciò noi vi preghiamo
di voler trasportare colla solita compiacenza queste provvigioni, poiché
l’ordinazione non basta, ma è anche necessaria una pronta spedizione.
L’effettuare tal cosa in ristretto spazio costerà ben poca fatica a Voi, che
veleggiate spesso per immensi mari, a voi che siete nati marinai che dovete
tenere la via delle acque per passare nel vostro luogo natale dall’una
all’altra casa. Che se talvolta le tempeste v’impediscono d’allargavi in alto
mare un’altra via vi si apre ancora, ed è pienamente sicura; vo’ dire quella
de’ fiumi, su cui le vostre barche, protette e salve dai venti e
dall’intemperie s’inoltrano fra le terre, sicché vedendole da lungi si sarebbe
indotti a credere che fosse pianura anche là dove voi correte. E le vostre
barchette non temono i venti; sicure raggiungono terra e mai non naufragano,
perché la spiaggia e vicina. A tal sorta di trasporti vi serve la corda alzaia
che la vostra gente di mare adopera in luogo di vela; ed il marinaio procedendo
a piedi muove il pesante carico riposto nel naviglio. Mi fa veramente piacere
(continua Cassiodoro) rammemorare qui ciò ch’io vidi co’ miei propri occhi
della vostra patria. L’illustre provincia Veneta, un dì ricolma di nobiltà si
estende verso mezzogiorno fino al Po ed al territorio di Ravenna, mentre verso
oriente gode la vista stupenda dell’Adriatico. Quivi, per la vicenda del flusso
e riflusso, ora appar terra, ora sembra ch’essa vi si sprofondi ancora sicché
d’un tratto si vedono isole, ove poco prima una squallida pianura si mostrava a
nostri occhi. E voi in tal dominio, da mare e da terra contrastato, voi vi
avete erette le case come nidi d’uccelli marini; con fascine e con dighe
sapeste collegare le vostre abitazioni; voi ammonticchiate la sabbia del mare
per rompere le onde infuriate; e quella difesa, in apparenza debole, annienta
la forza delle acque. Pesce è il cibo di voi tutti; la casa dell’uno è simile a
quella dell’altro; perciò voi andate esenti da un morbo, che altrove rallenta i
vincoli della società dall’invidia, cioè dalla gelosia dall’egoismo che surgono
per la diversità delle condizioni. La vostra attività industriale è tutta
rivolta a produrre il sale; gli spazi sui quali esso si consolida e asciuga vi
rendono il servizio e l’utile del campo e dell’aratro. Il sale occupa presso di
voi il posto che altrove ha il denaro coniato. E fortunati voi! Dell’oro si può
far senza, non già del sale, che è necessario condimento di tutti i cibi...
|
e così via.
La lettera del Cassiodoro ci conferma
che le isole venete costituivano una repubblica federativa governata da
tribuni; che questo stato era in buone relazioni coi dominatori di terra ferma;
che possedeva cantieri provveduti di ottimi velieri per la navigazione marina e
buone barche pel traffico fluviale, esercitato col sistema dell'attiraggio
tuttora in uso, ed altre per la pesca; che gli abitanti delle isole erano
marinai robusti, esperti, attivi, parchi, i quali vivevano modestamente in
anguste capanne cibandosi di pesce; che era molto curato il commercio nei più
lontani mari e che la lucrosa industria del sale era in fiore.
Interessantissima
poi riesce l’affermazione del Gran Cancelliere che questi abitanti andavano
esenti dai mali morali che affliggevano la terra ferma”
Saltiamo
un pezzo e andiamo subito a leggere quali erano i mali della grande città,
allora come ora:
La sobrietà di questo popolo era veramente eccezionale, se
avendo mezzi facili per provvedersi di cibi graditi preferiva il pesce. Nel
vestire, poi, lasciava il finissimo bisso per la grossa lana delle vicine terre
e indossava il saio corto a preferenza della toga, il pileo al cappello. Il
vestito comune consisteva nel copricapo a mitra, giacca a sacco, calzoni
larghi, sandali ai piedi, cintura con daga al fianco e una collana al collo. Il
pescatore e il marinaio si distinguevano dal berretto, il cacciatore pel
cappello, il soldato per l’elmetto. Le armi si riducevano ad una daga o stocco
da punta e taglio, alla lancia e alla freccia. Al desco frugale non v’erano
tovagliata, le posate, i bicchieri: si mangiava in rustiche scodelle in unico
catino, un vaso di terra serviva a dissetare tutti i commensali. Nelle isole
non si conoscevano amori sdolcinati, sfibranti: in un dato giorno le fanciulle
si adunavano al tempio e i giovani sceglievano fra esse la sposa. La donna era
rispettata secondo la religione cristiana; la morale, la buona fede, la
fratellanza, la libertà regnavano sovrane.
|
A citar
il Plateo che cita Strabone vi sarà venuta voglia di abbandonare il libro di Carlo Dariol
e cominciare da quelli, e vi consiglio di farlo. Ma loro non parlano di
Croce di Piave, e se io tanto rubo a loro è perché la situazione doveva esser
per la “croce del Piave” assai simile, se non la medesima appunto, di quel che accadeva attorno.
Che la Piave dovesse
essere la principale attrice per la località della croce non è dificile da
credere: nel corso dei secoli essa continuò con tremenda regolarità a far
parlare di sé, e ci par buono citare l’inondazione dell’820. [chi la cita?]
Ma quando comparve ufficialmente per la prima volta il nome “Croce di Piave”?
Nell’XI secolo.
A confermare che questo non sarà un libro algido
(=privo di passione), ricordo che l’altrettanto prosaico toponimo “Musil”
(diga, argine, ma anche recinto coltivato) comparve intorno all’anno 836 e
corrispondeva ad alcune case sulle rive della Piave. Destra o sinistra? Pare
sinistra. Qui fu costruito il primo edificio sacro in onore di san Donato,
vescovo e martire. Quale san Donato? Già, perché di santi Donati ce ne sono ben
undici; ma solo tre furono vescovi; e cioè il vescovo di Fiesole,
quello d’Arezzo, e quello dell’Epiro, contrada dell’antica Grecia sul mar Ionio,
oggi compresa nell’Albania soggetta ai turchi.
La Curia Trevigiana all’inizio del XX secolo stabilì che si trattava di
quello d’Arezzo (festa il 7 agosto), e in conseguenza di ciò il Comune di Musile in anni
recenti ha stabilito un gemellaggio appunto con la città di Arezzo.
Citando di straforo che l’invernata dell’860 fu tremenda
e lo spessore del ghiaccio sui corsi d’acqua fu tale da permettere ai carri di
transitarvi sopra; che il 1084 fu
funestato da alluvione e pestilenza, quest’ultima dovuta alle «meteore», e che il
1110 fu di nuovo afflitto da
un’alluvione, dobbiamo notare che le inondazioni
erano all’ordine del giorno, in un’epoca in cui la manutenzione degli
argini era assunta collettivamente dai proprietari dei terreni rivieraschi: gli
argini erano di fatto in stato di abbandono ed erano limitatissime le risorse
economiche impiegate per creare valide opere difensive.
Per cambiar calamità, nel 1117 e 1128 vi furono scosse di terremoto.
Ma torniamo alla storia di san Donato. Ecco come andarono le cose per il Plateo:
“Il doge
Michel, espugnato Tiro e occupati altri luoghi nella guerra sanguinosa
sostenuta dai crociati di Terra Santa contro i profanatori del tempio di
Cristo, fatto un ricco bottino, nell’anno 1128 rimpatrio trionfante, portando
seco, fra le cose più preziose per quei tempi, i corpi di S. Isidoro e di S.
Donato, quest’ultimo vescovo dell’Epiro, trovato in un castello dell’isola di
Cefalonia, la più grande delle isole Ionie della Grecia.
In quell’epoca il vescovo di Torcello per fuggire la malaria alternava la
residenza fra Torcello e Murano, allora città fiorentissima con sessantamila
abitanti, e il doge fece dono alla diocesi torcelliana delle reliquie di questo
S. Donato. Il vescovo s’interessò del collocamento dei resti mortali del santo
in modo particolare, e in breve la rinomata chiesa di S. Maria di Murano, che
era stata edificata un secolo e un quarto prima e funzionava da duomo, venne
restaurata radicalmente con pregevoli decorazioni, e in essa furono collocate
le ossa di S. Donato, le quali ebbero così nel rinnovato bellissimo tempio
degna dimora. Dal dono del doge Michel al completamento delle opere di restauro
e abbellimento, passarono due lustri, come lo prova la data che ancora oggi si
scorge nel pavimento del tempio (1140), da quest’epoca intitolato a S. Donato e
ora dichiarato monumento nazionale.
La fama di questo santo dopo il 1140 incominciò a diffondersi rapidamente in queste
terre, così da indurre i vescovi di Torcello, Treviso, Eraclea e Jesolo a
costruire una cappella presso la Torre del Caligo, sul confine torcelliano,
dedicata a questo S. Donato al duplice scopo di regolarizzare i confini delle
diocesi, e di dar modo agli abitanti che incominciavano a ripopolare il
territorio di compiere le pratiche religiose. La cappella nel punto di confine
fu consacrata dopo il 1186, quando cioè queste terre non avevano ancora un nome
proprio. Intanto gli abitanti delle terre vicine, che accorrevano alla cappella
di S. Donato per venerare il titolare,
affibbiarono il nome del medesimo alla comunità in formazione, sul cui
territorio transitavano, e così questo luogo fu ribattezzato col nome del santo
in voga”.
C’è chi invece afferma che quella cappellina era
più a nord, là dove la Piave sembrava dividersi in due ampi rami, il Canal
d’Arco e la Vecchia Piave. La zona era detta dei Musili, perché ricca di
rialzi nel terreno arginati dal consolidamento dei cumuli di limo plavense.
L’abbazia benedettina del Pero
La prima notizia
storica su Croce – indiretta ma non meno attendibile e che potrebbe avere
tratto in inganno l’Agnoletti nell’attribuire al ritrovamento di una croce, di
legno o di pietra, l’origine del nome del paese – la ricaviamo dalla storia
dell’abbazia benedettina del Pero
di Monastier e da quella dei suoi monaci, cui fu affidata la parrocchia di
Noventa. A questo punto fareste bene a interrompere la lettura di questo libro
e a leggere il bel libro di Ivano Sartor dedicato alla medesima, libro al quale
attingerò sovente per le notizie dei secoli XI-XIV. Se non lo fate, o
supponendo che l’abbiate fatto, continuiamo.
Nel Veneto, già prima
dell’anno Mille, erano sorti diversi monasteri benedettini: a Pomposa, ad
Aquileia, a Grado. Il monastero di san Pietro, detto poi di santa Maria del
Pero, era sorto sulle rive dell’omonimo fiume Pyro (l’attuale Meolo) probabilmente
intorno all’anno 958 (lì dove in seguito si sarebbe sviluppata la parrocchia,
appunto, di ‘Monastier’). Nel 1027 il monastero era già un grande centro per
tutta la zona tra il Sile e il Piave. Ecclesiasticamente dipendeva, con le sue
adiacenze, dal Patriarcato di Aquileia, ma per il proprio mantenimento
risultava autonomo.
Fino al Mille una vasta parte del Basso
Piave, come anticipato all’inizio, era palude e fitta boscaglia, e i monaci
benedettini, oltre che alla preghiera (“Ora…”), si dedicavano al disboscamento
dei terreni, alla coltivazione delle terre abbandonate, pulivano i fiumi e ne
consolidavano gli argini, aprivano solchi d’acqua nelle zone paludose dove
regnava la malaria, riassettavano le strade (“… et labora”); non ultimo,
provvedevano a diffondere il cristianesimo contribuendo alla conversione dei
barbari. Man mano che si disboscavano le terre e si tiravano a coltura, e le
popolazioni, per lo più nomadi, diventavano residenti, venivano loro consegnati
poderi da coltivare, con l’unico impegno di riconoscerne l’originaria proprietà
portando la quarantesima parte dei raccolti al monastero. S’andarono così
formando i primi nuclei dei paesi nei terreni dei dintorni del
monastero.
I terreni non di
proprietà del monastero a volte lo diventavano per effetto di lasciti e
donativi, così che il monastero andò accrescendo la sua importanza. Per ogni
gruppo di case i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o
di un oratorio dove la gente poteva soddisfare al precetto festivo, con annesso
anche un modesto beneficio, cioè una piccola rendita per il mantenimento del
sacerdote e per le spese del culto; oppure giungevano i benedettini stessi a
celebrare la messa e poi rientravano in comunità. Una di queste chiesette fu costruita
in prossimità della “crosera”. Siamo nel X o XI secolo.
In quest’isola di
diritto patriarchino sorgono a volte questioni di decime tra i canonici di
Treviso e i momaci del Pero. Una bolla di Eugenio III del 7 giugno 1145
richiama i canonici di Treviso all’obbligo, già in precedenza stabilito dalla
sede apostolica, di non esigere le decime sui beni che i monaci coltivavano col
loro lavoro o a loro spese. La vertenza riguarda i novali coltivati dai
monaci, cioè i terreni di recente recupero all’agricoltura.
... diocesi di Treviso
Di nuovo papa Eugenio
III interviene con un’altra bolla (la Justis Fratrum del 3 maggio 1152) a conferma dell’avvenuta
elezione del vescovo Bonifacio alla cattedra di Treviso, in cui dichiara che la
parrocchia di San Mauro in Noventa [affidata ai padri Benedettini del Monastero di
Santa Maria del Pero] è possedimento del vescovo di Treviso. Tra le dipendenze
episcopali vi è anche la “plebem S.
Petri de Piro cum pertinentiis suis” e compete all’ordinario diocesano
l’ordinazione di monaci e chierici in diversi monasteri, compreso il monasterium
de Piro, espressamento richiamato.
3 maggio 1152
Eugenio vescovo, servo dei servi di Dio
al venerabile fratello
nostro Bonifacio, vescovo di Treviso e ai suoi successori canonicamente
sostituendi in perpetuo.
Acconsentire ai giusti desideri dei Nostri fratelli
ed ascoltare le loro ragionevoli richieste conviene a Noi che, benché indegni
di sedere nell’eccelsa specola dei principi degli Apostoli Pietro e Paolo,
disponendo così il Signore, miriamo i cultori e banditori della giustizia.
Perciò, o diletto in Cristo, Fratello Bonifacio vescovo, annuendo benevolmente
alle tue giuste domande, riceviamo sotto la protezione del principe degli
Apostoli e nostra la chiesa del beato Pietro di Treviso, alla quale, con l’aiuto
di Dio, tu presiedi, e col privilegio del presente scritto, Noi la
fortifichiamo. Decretiamo che qualunque possedimento e qualunque bene che la
medesima chiesa possiede giustamente e canonicamente al presente o potrà
ottenere, con l’aiuto di Dio, in futuro, per concessione dei pontefici, per
elargizioni di re o di principi, per offerta di fedeli o con altri giusti modi,
rimangano stabili e intatti a Te e ai tuoi successori, e per mezzo di Noi alla
stessa chiesa.
Teniamo esporre pertanto queste cose con i propri vocaboli:
la chiesa di Santa Maria
di Asolo, con il castello, la corte, e con tutte le sue appartenenze;
...
[segue la
denominazione dettagliata delle temporalità del vescovado di Treviso, con
l’ordine delle pievi della diocesi tra cui appunto]
...
La pieve di S. Mauro di Noventa con le sue
appartenenze
Determiniamo perciò che a nessun uomo sia affatto
lecito perturbare temerariamente la predetta chiesa o togliere le sue
possessioni o trattenere quelle tolte, diminuirle o importunarle con certe
vessazioni; ma tutte siano conservate integralmente quelle cose di coloro per
il governo e il sostentamento dei quali esse furono concesse allo scopo di
giovare in diversi usi, salva sempre l’autorità delle Sede Apostolica.
Se pertanto in avvenire
qualche persona ecclesiastica o secolare, conoscendo questa pagina della Nostra
costituzione, tentasse senza ragione di venire contro di essa, sia privata
della dignità del suo potere e del suo onore.
A tutti quelli poi che
al medesimo posto osservano le cose giuste sia la pace del Signore Nostro Gesù
Cristo, finché e percepiscano qui il frutto della buona azione e presso il
severo Giudice ottengano il premio dell’eterna pace. AMEN.
firmato: IO EUGENIO VESCOVO DELLA CHIESA CATTOLICA
|
[La bolla originale è conservata nell’Archivio vescovile di Treviso, pergamene, bacheca 1]
I beni,
i diritti, i privilegi della diocesi trevigiana furono confermati ancora al
vescovo Bianco con la bolla di papa Anastasio IV, del I dicembre 1153, e con la
bolla di Adriano IV, del 2 gennaio 1156.
Perché abbiamo citato
la parrocchia di San Mauro di Noventa? Perché il territorio della parrocchia di
Noventa è piuttosto esteso, e verso sud giunge fino alla laguna veneta includendo,
attenti attenti, la “Gastaldia di Croce”
[lo afferma il Chimenton… Qual è l’anno del documento? Boh…] Ecco dunque
Croce, appartenente al territorio della parrocchia di Noventa, entrare
ufficialmente nella Storia come appartenente alla pieve di san Mauro di Noventa
che è affidata all’amministrazione del monastero del Pero che dipende in
spiritualibus dal vescovo di Treviso ma è proprietà del patriarca di
Aquileia. Facile no?
Cos’è una ‘gastaldia’?
La ‘gastaldia’ è un
territorio retto da un ‘gastaldo”, termine che deriva dal longobardo Gast = ospite più
Halten =tenere, e indica colui
che amministrava i beni patrimoniali del principe e arrivava fino ad
amministrare la giustizia. Qual è il principe? Il patriarca di Aquileia, che
non riuscendo ad amministrarli direttamente, li affida a qualche gastaldo.
Non vi sono specifici
documenti storici per quanto riguarda la Villa di Croce, ma si può ritenere che
i benedettini avessero da tempo edificato una cappellina a Croce perché nei
documenti del Monastero del Pero è testimoniato che negli anni seguenti la
piccola chiesa della Gastaldia venne ampliata più volte” [B. Mon. Pero, 1300].
Che Croce sia già da allora ben distinta da Musile lo dimostra una doppia
separazione: amministrativa e religiosa.
Abbiamo detto (o l’ha
detto il Plateo?) che le terre del Basso Piave a quei tempi erano incluse
nell’Agro di Eraclea che si estendeva per circa 20 mila ettari e che tra di
esse erano compresi 1.500 ettari dell’attuale territorio di Musile e di Croce.
Ma se la maggior parte dell’Agro di Eraclea apparteneva al Dogado Veneziano
(come Musile) ed era suddivisa tra le docesi di Torcello, di Equilo e di
Cittanova, il territorio a nord dell’Annia comprendente tutta la Croce di oggi
apparteneva politicamente al patriarca di Aquileia.
Anche dal punto di vista
religioso vi era separazione: era sotto la giurisdizione del vescovo di Treviso
il territorio di Croce, mentre era sottoposto alla giurisdizione del vescovo di
Torcello il territorio musilense odierno, escluso l’attuale centro che
apparteneva alla diocesi di Cittanova, cosa che fa pensare che la Piave da
quelle parti scorresse allora un poco più a occidente.
Ma sia
Croce che Musile non dovevano contare che qualche centinaio di abitanti. Non
dovette perciò fare molti morti la peste che nel 1172 provocò tanti morti
in tutto il trivixano [Romanin, Storia documentata di Venezia].
Nel 1176 papa Alessandro III, quale segno di riconoscenza per la conversione della
Chiesa di Aquileia alla sua causa contro l’antipapa Vittore IV, le riconosceva
la giurisdizione e i privilegi antichi, citando esplicitamente i venti
magazzini o botteghe del Pero.
Il patriarca di Aquileia doveva avere difficoltà ad amministrare questi luoghi
distanti, se nel 1177 preferì
“donare” ad Ezzelino da Romano il Balbo che tornava dalla Terrasanta «la villa
di Fossalta vicino alla Piave ed il castello di Mussa con tutte quelle
possessioni e terre e boschi che al detto castello appartengono».
[G.B. Verci Storia degli Eccelini, Venezia 1941]
Sotto il dominio di Ezzelino finì
anche la Gastaldia di Croce. Non si trattava però di una vera e propria
donazione: a Ezzelino fu concesso di esercitare su questi territori una sorte
di avvocazia. In quello stesso anno, a pochi chilometri di distanza, Federico
Barbarossa si riconciliava con papa Alessandro III nella Basilica di San Marco
a Venezia, e nasceva la festa della “Sensa”.
Con la bolla originale di papa Lucio III, del I ottobre 1184 da Verona, fu
chiarita la competenza “in spiritualibus” del vescovo trevigiano Corrado
sull’abbazia del Pero; gli abati dovevano obbedienza al vescovo
nell’eventualità che fossero investiti della cura d’anime; la bolla (come pure
la successiva di papa Urbano III, del 2 dicembre 1185) attribuiva al vescovo di
Treviso i possedimenti e privilegi jure proprietario, sul monastero del
Pero, secondo la consuetudine ma, specificava la bolla, l’abbazia
continuava ad appartenere al patriarcato di Aquileia.
Nel 1192 un certo Ussinello da Medade (=terra di mezzo, Meolo, forse l’attuale Losson)
vendette a Ottone, abate del Monastero del Pero, tutta la terra che possedeva
nella località detta “Gonfo” (pare che il nome derivi da “giunco” o
“giuncaia”), situata nel territorio di Croce
[atti riportati nell’ASVE, b. 9, Catastico Sandei proc. 227 c. 4 del notaio Hermanno]
Nel 1203 i Veneziani devastavano
Costantinopoli nel corso della IV crociata e nel 1214, al momento di
ritirarsi in convento, Ezzelino detto il Monaco suddivideva i suoi beni tra i
due figli assegnando ad Ezzelino i possessi nel trevigiano e ad Alberico quelli
di Vicenza.
[MAURISIO, cronaca ezzeliniana… ]
Nel 1217 Domenico di Guzman passava per Noventa accompagnato dal patriarca di Aquileia
Volchieri; devoto della Madonna qual era, diffondeva ovunque la
Scuola del Rosario da lui fondata; e alla quale prima o poi anche Croce avrebbe
aderito.
[D. S. Teker: Storia di un popolo, pag. 14]
Nell’Oratorio del Rosario, a fianco della chiesa, una lapide del 1717 ricorda la nascita
del primo oratorio di devozione al rosario in occasione della visita
di San Domenico di Guzman, avvenuta nel 1217.
Nel 1226 la siccità
bruciò i raccolti e causò una moria di bestiame per mancanza di fieni; ne
conseguì una terribile carestia.
[A. Battistella, La Repubblica di Venezia ne’ suoi 11 secoli di Storia, Venezia 1921]
Il 4 ottobre di quell’anno moriva ad Assisi san Francesco.
Nell’inverno del 1234
il gelo fece seccare la maggior parte delle viti e provocò un’elevata moria fra
il bestiame.
Nel 1239 Alberico da Romano si staccò dal partito filo-imperiale del
fratello e occupò Treviso, mettendosi sotto la protezione papale; qui esercitò
il potere in unione con gli alleati Caminesi per poi impadronirsi completamente
della scena politica, in un crescendo di terrore e repressioni.
Nell’anno 1248, un lustro circa dopo che Treviso aveva regalato alla
repubblica di Venezia possedimenti di qua e là del Piave (Croce e Mussette)
per mostrarsi grato al governo repubblicano, furono rettificati i confini delle
diocesi e quella di Treviso si ebbe il territorio che aveva prima del 712, cioè
del trattato fra Liutprando e Lucio Anafesto, e (una parte di) S. Donà passò dalla diocesi
d’Eraclea a quella di Treviso senza tener conto del trattato con Ottone III. Tale notizia è recuperata dal Plateo.
Ma prima deviamo verso la leggenda.
La leggenda dei due capponi e del nome di San Donato
Nel 1250 o giù di lì una tremenda inondazione
tagliò in due il paese di san Donato, lasciando la sua chiesetta a destra del
fiume (così racconta l’Agnoletti), lasciando supporre che la chiesetta si
trovasse prima sulla sinistra e che il fiume corresse più a occidente. Quando
le acque si ritirarono le famiglie rimaste a sinistra non si persero d’animo e
con fiducia costruirono un’altra chiesa dedicandola a san Remigio, vescovo di
Reims: se lui tanti secoli prima era riuscito a conquistare il cuore del re
pagano Clodoveo battezzando tremila franchi, anche loro l’avrebbero finalmente
avuta vinta contro quegli scherzi d’acqua e del destino. Ma si sa che quando ci
si affeziona a qualcuno, sia una moglie, un figlio o un santo, è difficile d’un
tratto staccarsene. Presi dalla nostalgia gli abitanti di San Remigio vollero
in qualche modo ricordare nel nome del paese l’amato santo. Tanto fecero e
tanto pregarono che alla fine convinsero i vicini di Musile a lasciare alla
frazione cresciuta intorno alla cappella di San Remigio il nome di San Donato;
Musile, dal canto suo, conservò il titolo nella chiesa parrocchiale. Ciascun
paese possedeva dunque un importante riferimento a san Donato e la questione,
che rischiava di degenerare in rivalità accesa fra le frazioni, fu finalmente
risolta, con la donazione di un paio di “gallos eviratos”. (La cerimonia
organizzata per suggellare quello che ancor oggi si chiama “Patto di amistà”
risale al 7 agosto di un anno imprecisato del XVI secolo.) Questa almeno la
storia che Musilotti e Sandonatesi amano ricordare.
Nel contesto di una
tarda azione di recupero di beni già patriarcali apprendiamo di una
dichiarazione rilasciata il 31 ottobre 1253 da Reprandino, procuratore di
Alberico da Romano, al patriarca Gregorio da Montelongo, nella quale elencava
tutti beni tenuti in feudo: la corte di Medade con il castellar
di Medade, le ville di Medade, Angaran, Carpenedo, Gonfo, Pralongo, Ansom
(Zenson?), Meolo, Mardegane, il porto di Meolo e la villa di Croce.
[Museo Correr di Venezia, ms. PD-C 970/16, 23 aprile 1464]
La riconciliazione di Alberico col fratello Ezzelino (1257) avvenne in un periodo
di difficoltà per entambi: contro di loro la Chiesa emise condanna di scomunica e indisse una
crociata di liberazione dai perfidi “tiranni”,
alla quale concorsero i numerosi fuoriusciti di Treviso, raccoltisi in Venezia.
La drammatica fine della stagione ezzeliniana, protrattasi per oltre un secolo
culminò con la “strage di San Bartolomeo” in cui l’intera famiglia dei da
Romano venne annientata nel castello di San Zenone (1260).
Il Consiglio Maggiore della città di Treviso
provvide a incamerare i feudi della famiglia e, dando per certi anche i diritti
di subingresso nell’avvocazia ezzeliniana sui feudi e sui beni dell’abbazia del
Pero, fece occupare i boschi della Martellia [Marteggia] e della Silvella [Fossalta]
presso la Piave; in particolare nel 1261
avocò a sé la «Curia di Mussa e di San Donato e la Villa di Croce appresso la
Piave»
[A. Marchesan, Treviso Medievale,Treviso 1924]
nonostante l’opposizione del patriarca aquileiese che le avrebbe
rivolute indietro.
Il patriarca di Aquileia Gregorio da Montelongo vendette allora la prima al veneziano Marco
Querini e la Villa di Croce al Nobil Homo Albertino Morosini di Venezia. Si
scatenò una contesa tra il Comune di Treviso e il patriarca di Aquileia.
Notizie di questa contesa si leggono nel Pavanello che le riprende
dalla Storia della Marca Trevigiana del Verci,
il quale riporta che nel 1285, in una causa che il Comune
di Treviso aveva sostenuto col vescovo di Feltre, alcuni testi avevano parlato
dei beni del patriarca di Aquileia.
Interrogato allora uno ch'era vissuto a lungo nel Monastero del Pero,
aveva risposto che i Trevigiani esercitavano la loro signoria nelle terre intorno da ventisei
anni (in questi anni egli era vissuto nel monastero); come avessero incominciato non sapeva.
Interrogato come sapesse ciò, aveva risposto che li aveva veduti esercitar l'avocazia e il contado
e che sempre v'era questione tra loro e il Patriarca.
Interrogato se li aveva veduti
esercitar continuamente la detta giurisdizione, rispondeva che sì, tranne per otto mesi, nel qual tempo aveva
veduto farlo il patriarca Raimondo ovvero i suoi gastaldi.
Interrogato con quale diritto l'esercitavano, e in che consisteva, rispondeva che essi ne assumevano
l'avocazia, dicendo d'essere gli eredi di quelli da Romano e che consisteva in ciò, ch'essi avevano fatto
e facevano quel che negli altri luoghi del loro distretto.
Interrogato chi fosse allora capitano e chi podestà del comune, rispondeva che il
capitano era Gerardo da Camino [il buon Gherardo di Dantesca memoria,
che tanto buono la Storia ha dimostrato non essere] ma che anche prima del
capitanato di questo, quella terra era del Comune trevigiano e che del podestà
nn si ricordava.
In seguito a un'altra domanda rispondeva ch'essi esercitavano la loro signoria
in tutte le terre del Patriarcato tranne i S. Polo e in S. Giorgio.
Queste domande riguardavano l'articolo XXVI; si passò quindi all'articolo XXVII.
Intrrogato in qual tempo i detti signori avevano incominciato a imporre angaria e perangaria e colletta
agli abitatori, rispondeva che da quarant'anni il facevano, per quanto si ricordava.
Interrogato se lo aveva veduto imporre, rispondeva che aveva veduto imporle a Frasseno, al maestro Zasse,
a Domenico suo figlio, a Zambono, a Lorenzo di Medade e a tanti altri dei luoghi intorno,
dei quali non si rammentava.
Interrogato che cosa fossero questi diritti, rispondeva che l'angaria consisteva nel
fare le riscossioni del Comune, che non sapeva che cosa fosse la perangaria, e che la colletta consisteva
in un certo contributo, che il contadino pagava in moneta al padrone del maso da lui tenuto.
Interrogato se aveva veduto qualcuno pagare edeseguire le dette imposizioni rispondeva che sì,
ed interrogato con qual moneta rispondeva che l'aveva veduto fare con moneta d'argento e
con piccola moneta veneta.
Oltre a ciò lo stesso teste diceva che il Comune di Treviso poneva suoi gastaldi nei boschi della
Martellia [Marteggia] e della Silvella [Fossalta] e che i Gastaldi
a lor volta ponevano guardiani (salteros), i quali se trovavano delle barche, le prendevano,
le bruciavano e imponevano ai proprietari una multa.
Dopo questo fu udito un altro teste, Marco degli Albignoni, il quale sostenne di aver veduto le stesse imposizioni
venir fatte dai Trevigiani nella Villa del Monastero del Pero, in Medade [Losson], in Croce,
in Carpenedo ed in Meolo.
[Verci, Storia della Marca Trevigiana tomo III pagg. 119 e segg.]
Ora null'altro di più s'udiva.
Si ascoltava quindi il procuratore del Patriarca che riassumeva la questione
in alcuni capitoli, dei quali questi sono i più importanti:
(VII.) Che il monastero del Pero posto nel distretto di Treviso spettava al Patriarca
e alla chiesa aquileiese nella giurisdizione spirituale e temporale di pien diritto,
e in modo particolare in forza di concessioni e di privilegi della Sede Apostolica ed in forza
dell'ordine promulgato dal venerabile padre Ugone vescovo di Ostia e di Velletri,
vero legato del Pontefice, e confermato con sicura conoscenza dalla stessa S. Sede, e che
spettava ad essa già or sono cinquant'anni e prima, e che da indi innanzi le spettò sempre.
(XI.) Che la villa di Croce spettava al Monastero del Pero ed era fra le pertinenze sue.
[Verci, Storia della Marca Trevigiana tomo IV pag. 86]
Prima di riprendere i dettagli della contesa ricordiamo le calamità naturale di quegli anni:
1269: carestia causata da una cattiva annata agricola; e scossa di terremoto;
1276: alluvione; e inverno particolarmente rigido;
1285: terremoto;
1287: carestia causata da una cattiva annata agricola; tutto il Veneto è attanagliato dalla fame.
Le calamità seguivano i ritmi della tombola.
Per una trattazione completa dell’argomento vedi
CARLO DARIOL - Storia di Croce Vol. I - IL PAESE DELL'INVENZIONE
dalle origini all’arrivo di Don Natale (1897), Edizioni del Cubo
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