Historia: dal 1291 al 1450

HISTORIA de CROSE
dalle origini al 1290


Prologo

Rinnovando la serie dei casi che vedono paesi con una storia e un’anima diventare addentellati amministrativi di entità più anonime, Croce di Piave attualmente è frazione di Musile; anzi, a voler anticipare le vicende finali della storia e della toponomastica, Croce-di-Musile oggi è frazione di Musile-di-Piave. Tutto ciò è in gran parte il risultato della burrasca napoleonica che cambiò il sistema amministrativo del Veneto; ma determinante fu la successiva restaurazione asburgica che nominò Croce di Piave, più estesa e più popolosa, frazione di un Comune che, per non essere citato come “il musil” (=il recinto), veniva in quel momento meno ignominiosamente citato come “San Donato di là” (della Piave) in contrapposizione a “San Donato di qua” (della Piave), denominazione che rivela come, agli amministratori asburgici che da Vienna guardavano verso i confini dell’impero, “il musil” risultasse una semplice estensione oltrefiume di una realtà maggiore sviluppatasi e distintasi sulla riva sinistra (di qua) del Piave: nient’altro che “un pleonasmo di San Donà”, come avrebbe detto nel 1922 don Natale Simionato, il parroco più longevo e leggendario della storia di Croce di Piave. Seguirono altri piccoli oltraggi, non ultimo di importanza il furto del complemento di specificazione, per cui Musile divenne Musile-di-Piave e Croce-di-Piave fu ridotta a Croce-di-Musile.

Croce di Piave, diocesi di Treviso, provincia di Venezia,

Cominciamo dal primo complemento di specificazione, il più naturale, il più semplice:

...di Piave



Croce si trova alla destra del Piave, in prossimità delle sue ultime anse e prima che esso diventi una dritta canna puntata verso il mare… Sappiamo tutti che quella è una canna artificiale che risale al XVII secolo. Prima il Piave era libero di… Prima quando?

Forse è bene cominciare dall’inizio. All’epoca Romana, in cui proliferarono gli scrittori? No, lì forse è troppo prima: gli storici romani Tito Livio, Strabone, Polibio, Plinio il Vecchio non fanno mai riferimento al Piave. Non c’era il fiume a quel tempo? Certo che c’era, solo che le sue acque si confondevano con quelle del Sile e perciò anch’esso veniva confuso col ‘Sile’. Pare che i Romani lo chiamassero ‘Alassum’ [verificare la notizia].
Il nome ‘Piave’ compare per la prima volta nei ‘Carmina’ del vescovo di Poitiers Fortunato Venanzio (nato a Valdobbiadene verso il 530 e morto nel 617, poi santo), che lo incluse tra i fiumi veneti nelle relazione di un viaggio «de Ravenna progrediens Padum, Athesim, Brintham, Plavem, Liquentiam, Tagliementumque», ossia, ‘partedendo da Ravenna, il Po, l’Adige, il Brenta, la Piave, la Livenza e il Tagliamento’. (=raccontando del viaggio fatto nel IV secolo da Gregorio vescovo di Tours? Controllare la notizia). Qui è il Sile che manca dall’elenco. Lo stesso Fortunato Venanzio torna a nominare il fiume parlando dell’amico e compagno di studi Felice, primo vescovo di Treviso, che nel 569 andò incontro ‘a Lovadina, presso il fiume Piave’, ad Alboino, re dei Longobardi. (Il gesto permise a Felice di veder risparmiata, a differenza di altre, la propria chiesa dalla devastazione ed anzi di vederne aumentare il territorio, inglobando parte delle diocesi di Altino e di Oderzo). [Controllare l’esattezza della citazione]

L’episodio dell’incontro tra Felice e Alboino “…ad fluvium Plavim” è raccontato anche dallo storico dei Longobardi, Paolo Diacono (720 ca – 799), nella sua Historia Langobardorum [libro II, par. 12]

Il Piave viene nuovamente nominato nella ‘Cronica’ del Diacono Giovanni (XI sec.) alla data del 71? [controllare il riferimento], in occasione degli accordi tra il primo doge di Venezia, Paoluccio Anafesto, e Re Liutprando dei Longobardi nello stabilire i confini di Venezia . In questo e nei documenti successivi, quello che non sfugge è una certa confusione che allora esisteva tra Sile e Piave; ambiguità che trova origine nell’antica configurazione del fiume, che scendeva dalla sorgente privo di arginature, lasciando le acque libere di scorrere in numerosi rami e rigagnoli, definiti nel complesso Piave. Nel loro libero scorrere queste acque venivano a confondersi con quelle del Sile, che da Treviso scendeva verso la laguna in direzione di Altino.

Che significa Piave? Alcuni sostengono che venga dal tedesco ‘ablaufen’ (=correr giù), altri lo fanno derivare dal longobardo ‘plow’ che indica lo scorrere delle acque; altri ancora ritengono che sia stato chiamato ‘Flavio’ in onore di Flavio Ostilio che governò Belluno nel 110 a.C., e che il nome si sia corrotto poi in ‘Plavio’ e quindi Piave.
[O. Sottana, Storia millenaria del Piave, Treviso 1988].

E ormai che abbiamo fatto il salto all’insietro nel tempo, approfittiamone per dare un’occhiata alla regione dove Piave e Sile si confondevano, ai confini della laguna veneta, allora molto più estesa dell’attuale: il territorio è caratterizzato da valli, barene e paludi ad eccezione un tratto ricco di boschi, una fascia boschiva (la selva Fetontea) che giunge fino al Livenza, al margine meridionale della quale corre la via Annia, la strada consolare romana che collega Roma con Aquileia e segna il confine tra la terra de boschi e le acque della laguna.

(La via Annia)

La via Annia, dritta come un fuso secondo i dettami dei “manuali delle costruzioni stradali” di Roma, aveva avuto un ruolo importante nella ‘romanizzazione’ del Veneto. Aperta dal pretore Tito Annio Rufo, da cui aveva preso il nome, nel 131 a.C. a prosecuzione della via Popilia, l’Annia partiva da Adria e raggiungeva Aquileia passando per Patavium (Padova) e Altinum (Altino), nel cui agro entrava presso l’attuale località di Marghera; proseguiva poi parallela alla laguna fino al Piave, in direzione di Iulia Concordia (Concordia) e a Concordia confluiva nella via Postumia. Nell’odierno comune di Musile essa «tagliava le Cassinelle e costeggiava il Gorgazzo per circa due chilometri» [Vittorio Galliazzo I ponti romani sulla via Annia]: la Annia corrisponderebbe pertanto all’attuale via Emilia, come attesterebbero alcuni reperti (anfore e vetri) ritrovati recentemente nelle sue prossimità. Ma poiché tale via era spesso invasa dalle acque della laguna, in epoca più tarda ne fu tracciato un percorso alternativo, arcuato verso nord, come confermerebbe il recente ritrovamento dei basamenti di piloni e di travi di legno di un ponte romano in località Ponte Catena a Meolo; questo percorso attraversava il Piave qualche chilometro più a nord, la dove un pass, cioè un traghetto – oggi un ponte a pagamento tra Fossalta e Noventa – ne segna ancora la posizione. Per certo, la via Annia, arrivata al Piave all’altezza dell’attuale ponte tra Musile e San Donà, nei tempi di piena del fiume veniva abbandonata per raggiungere più a nord il predetto pass, e ritornava poi a riprendere sulla sinistra del fiume la grande via romana.

Lungo il percorso della Via Annia esistono oggi in vari comuni diverse ‘via Emilia’, cartelli stradali dedicate dalle amministrazioni locali a questa via, lungo tutto il suo percorso che allora per molti tratti fu solo ipotetico perché fino a pochi decenni fa essa era nota col nome di via Emilia Altinate per via di un confuso passo di Stradone. La riattribuzione corretta del nome ‘Annia’, risalente a qualche decennio fa, non ha impedito ai vari tronconi di ‘via Emilia’ di continuare ad esistere nelle toponomastiche di vari Comuni, tra cui Musile.

Ci siamo col fiume e la zona? Ora giungiamo al sostantivo:

Croce…

È probabile che le due ‘Annie’, quella dritta come un fuso e l’arcuata più a nord, fossero collegate da qualche strada, alla destra del Piave. Formava questa strada una specie di croce con altre strade minori? Possibile.

Lungo questa strada che congiungeva le due ‘Annie’ – circa a metà tra le due, dove oggi corre la ferrovia, come fanno pensare le mappe del ’500 – sorse l’antica “croce”. Era una croce di legno o un crocicchio di strade? Qualcuno ritiene che fosse una croce cristiana (e quindi di legno), resto di un tempietto che i legionari convertiti avrebbero costruito lungo la via Annia (in realtà a metà tra le due ‘Annie’), andato poi distrutto; forse erano i resti stessi del tempietto a conservare nella pianta il ricordo della croce (e quindi una croce di pietra); probabilmente si tratta di una leggenda legata alla parola “invenzione” (dal latino invenire, cioè “ritrovare”), parola che, accostata in epoca rinascimentale alla denominazione “S. Croce”, oggi appartiene al titolo della chiesa.

Secondo lo storico trevigiano Carlo Agnoletti, il nome sarebbe di origine più tarda e dovuto a una croce (di legno) eretta dai benedettini della Pieve di San Mauro di Noventa, sul posto dove sarebbe stata in seguito costruita la chiesa per la gente del luogo affidata alla loro cura pastorale. Forse non era necessariamente la segnalazione di un luogo sacro perché a quei tempi vi era l’uso di erigere una croce anche per segnare i confini di una proprietà. Se teniamo conto che la parrocchia di Noventa venne eretta nel 1152, e che i benedettini erano nei paraggi (a Monastier) da più di un secolo, essi avrebbero dovuto collocare quella croce tra l’XI e il XII secolo. E invece le origini di Croce sembrano più antiche. L’Agnoletti si è macchiato di molti errori storici e questo dovrebbe rientare nel numero.

La versione più attendibile è che “croce” sia un toponimo, ossia un nome legato alla realtà geografica: del resto i nomi dei paesi vicini a Croce indicano tutti conformazioni e situazioni geografiche: Fossalta, Mussetta, Musile, Pralongo, Ponte di Piave. Nutrendo dubbi sul crocicchio di strade, così rare un tempo e così mal tenute, vien più naturale pensare a una “croce del Piave”, lì dove sarebbero confluiti in un unico letto due rami del Piave, o dove un unico ramo si sarebbe diviso in due o dove addirittura i due rami si sarebbero intersecati a formare una croce; non stupisca quest’ultima ipotesi: se ‘nomina sunt consequentia rerum’, e dato che una croce è diversa da una confluenza e da una biforcazione, e poiché in antichità la Piave non era irregimentata ed era libera di mutare corso e invadere la campagna a piacimento, è dunque pure possibile che le sue acque formassero una X.

Tra boschi e paludi

Numerose fonti (Giovanni Rossi all’inizio dell’Ottocento, ripreso poi dal Cicogna) parlano di una grande foresta a nord di Croce, “la famosa selva di Fetonte appartenente alla poi distrutta città di Altino, [che] si estende[va] fino a comprendere la terra chiamata poi di Monestier, passando appunto per la linea delle così dette dipoi Valli di Casa Tron e da Riva su pel canale ora Fossetta da un lato, per Fossalta, Zenzon, s. Andrea di Barbarana; e per l’altro per la linea del fiumicello Meolo, e perl Sile […] Dovunque in questa linea alla sinistra del Piave trovansi traccie dell’antichissima continuazione boschiva. Parecchi luoghi appellansi Bosco, o Busco tutt’ora anche alle opposte sponde […]”

La via del Bosco che attualmente attraversa il centro di Croce può essere un indizio… ma anche no: il bosco in questione potrebbe essere creazione più recente dei veneziani che dominarono il paese fino alle metà dell’Ottocento.

Croce si colloca a metà tra i boschi e la laguna, e la sua vicenda corre sospesa tra gli avvenimenti del basso trevigiano e le sorti della laguna.

Nel 168-169 d.C. Quadi e Marcomanni invasero Oderzo, si registrarono quindi le funeste invasioni delle truppe barbare durante il regno di Gallieno (260-268) e di Aureliano (270-275). Il Cristianesimo, giunto tardivamente nel Veneto, lasciando dietro di sé poche tracce di martirio, trovò organizzazione diocesana prima della pace costantiniana solo nella città di Aquileia, Padova e Verona. In Altino la presenza di un vescovo, Eliodoro, data solo a partire dal 381.

Scrive Teogisillo Plateo [Il territorio di San Donà nell’agro di Eraclea, 1907]: “Quando la stella del romano impero volgeva al tramonto imperversarono le persecuzioni contro i cristiani. Seguirono quindi le irruzioni barbariche e le lotte scismatiche dell’arianismo, e così le più cospicue famiglie di Aquileia ripararono a Grado, quelle di Concordia a Caorle, di Oderzo a Melidissa, di Altino a Torcello, di Padova a Malamocco e Chioggia e di altri luoghi in altre isole meno importanti”.
Immaginiamo che i pochi abitanti presso la “croce del Piave” (che ad aver documenti si sarebbe potuto citare qui uno per uno tanto eran pochi), si spinsero dunque, come quelli di Oderzo e di Altino, verso il litorale, verso le isole della laguna. Magari non tutti, magari solo alcuni… Gli altri, nascondendosi tra le acque della laguna, piegandosi come il giunco alla fiumana per poi riergersi, si saranno mescolati coi barbari e nelle vene degli attuali abitanti di Croce scorrerebbe sangue venetico e barbaro.

In seguito, ma molto in seguito, almeno cinque-seicento anni dopo le prime invasioni,il nome della località, già indicata con crocevia, crosera o luogo della croce, complici i benedettini e la loro croce (di legno o di pietra) presso il fiume, sarebbe stato associato alla “Santa croce” cristiana; e quando fu eretta la parrocchia (1509), nelle scelta dell’intitolazione della Chiesa si volle far riferimento all’invenzione (= ritrovamento) della croce per antonomasia, quella del Signore.

Al civile però il paese rimase sempre “Croce di Piave”: Gastaldia di Croce di Piave, Villa di Croce…
A convalida dell’ipotesi ‘toponomastica’ vi è la considerazioni che in tutti i documenti storici il titolo della parrocchia è sempre “Santa Croce” (e in seguito “Invenzione della Santa Croce”) in Croce di Piave, dove sono ben distinti il “titolo” della Chiesa (“Santa Croce”) e il “nome” della località in cui si trova (“in Croce di Piave”).

Ritorniamo al tempo delle invasioni barbariche.

Nel V secolo cominciano ad apparire gli episcopati di Treviso e Oderzo, sorti in un contesto politico dominato dalla presenza dei nuovi conquistatori, dapprima i Goti e poi, dal 569, i Longobardi che resteranno presenti come ceto dominante dal VI all’VIII secolo.
I profughi locali intanto (ancora il Plateo): “[…] non trovando punto sgradevole il soggiorno dell’estuario, o temendo nuovi tormenti nella terra ferma, fissarono nelle isole la loro dimora […]” Gli isolani, rafforzati dai nuovi abitatori, e animati dallo spirito d’intraprendenza loro impresso dalla vita avventurosa del mare, fecero tesoro delle cognizioni utili importate e si affrettarono ad istituire una consociazione fra le isole per provvedere alla difesa dai nemici esterni e per regolare nel tempo stesso le faccende interne.

Aggregate le isole minori alle maggiori, si contavano, in antico, sette capoluoghi corrispondenti ai sette lidi di Grado, Caorle, Melidissa, Torcello, Malamocco e Chioggia, che Plinio, nella sua Storia naturale, distingue col nome di sette mari. Questi capoluoghi avevano il loro porto che serviva anche alla terra ferma, cioè: il primo ad Aquileia, il secondo a Concordia, il terzo ad Oderzo, il quarto ad Altino [...] Si può quindi stabilire che, nel V secolo dell’era cristiana, l’estuario cessò d’esser un luogo a disposizione del primo occupante e i lidi cessarono la loro soggezione alle Città contigue, affermando la loro costituzione di Stato libero, retto colla forma di repubblica federativa democratica.

Alcuni scrittori assegnano, alla consociazione dei veneti secondi, la data del 25 Marzo 421, in cui ebbe luogo la consacrazione della Chiesa dedicata al Beato Giacomo Apostolo a Rialto, compiuta coll’intervento dei vescovi Epodio I pastore di Opitergio, Severino di Padova, Ambrogio di Altino, e Giocondo di Treviso i quali estendevano la loro giurisdizione ecclesiastica alla nuova Venezia marittima.

Popolo, clero e nobili di ciascuna delle isole maggiori riuniti in assemblea generale con voto palese libero eleggevano il loro capo col titolo di Console, investito dalle funzioni di Magistrato locale colla prerogativa di membro del governo federale.

Le grandi divisioni della giurisdizione erano segnate dai fiumi, cioè: la I andava dall’Isonzo al Tagliamento, la II dal Tagliamento al Livenza, la III dal Livenza al Piave, la IV dal Piave al Sile, la V dal Sile al Dese, la VI dal Dese all’Adige”.

Il territorio “della croce del Piave” apparteneva dunque alla IV giurisdizione e il suo capoluogo di riferimento era Malamocco. Ci abitava qualcuno? Difficile dirlo

Ancora Plateo: “Le isole incominciarono ad avere edifici importanti coi loro vescovi soltanto dopo la discesa d’Alboino.

Da questi fatti, e in particolare dal sicuro asilo che gli abitanti del continente veneto trovarono nelle lagune, si apprendono tre cose interessanti; e cioè:
a) che l’estuario era impenetrabile agli oppressori dalla terra ferma;
b) che nelle isole l’aria era buona, l’acqua potabile e i mezzi di vita abbondanti;
c) che la libertà e l’ospitabilità regnavano sovrane.

Secondo Vitruvio e Strabone la Venezia inferiore da Altino ad Aquileia era intersecata da fiumi, canali e paludosa; secondo altri, accanto alle paludi vegetavano rigogliosamente estese boscaglie e terreni coltivati e nelle sabbie marine, ora inutilizzate, facevano pompa delle superbe pinete da Ravenna alle foci del Tagliamento. Non v’è dubbio che le isole, difese dalle acque marine e fluviali, per le milizie di terra di quei tempi fossero vere fortezze inespugnabili, tali essendo state dichiarate dallo stesso Attila, che non vedeva ostacoli insuperabili ai suoi ardimenti.

Quanto alla bontà dell’aria, lo stesso Vitruvio, scrittore dei primordi dell’era cristiana, facendo il confronto delle paludi pontine colle veneziane, ebbe ad affermare che quest’ultime dovevano la salubrità al beneficio del flusso e riflusso del mare, che distruggeva i germi di putrefazione. Questa opinione trovò conferma 600 anni dopo nelle lettere di Cassiodoro. D’altra parte, le selve antiche e i pineti marini non dovevano essere estranei alla bontà dell’aria”.

Una descrizione particolareggiata a tinte vivaci di Melidissa e delle altre isole nei primordi del VI Secolo l’abbiamo dalla XXIV lettera della preziosa raccolta di Cassiodoro, l’eccelso uomo di Stato, Prefetto di Teodorico, alla quale è attribuita la data del 520 circa.
Questa lettera esprime impressioni dell’autore di essa ricevute anni prima in una sua visita all’estuario, ed è diretta ai Tribuni delle lagune venete:

Abbiamo ordinato in Istria che venga inviato a Ravenna del vino e dell’olio essendo riuscito abbondante il raccolto di questi prodotti nello scorso anno. Voi possedete navigli a sufficienza, perciò noi vi preghiamo di voler trasportare colla solita compiacenza queste provvigioni, poiché l’ordinazione non basta, ma è anche necessaria una pronta spedizione. L’effettuare tal cosa in ristretto spazio costerà ben poca fatica a Voi, che veleggiate spesso per immensi mari, a voi che siete nati marinai che dovete tenere la via delle acque per passare nel vostro luogo natale dall’una all’altra casa. Che se talvolta le tempeste v’impediscono d’allargavi in alto mare un’altra via vi si apre ancora, ed è pienamente sicura; vo’ dire quella de’ fiumi, su cui le vostre barche, protette e salve dai venti e dall’intemperie s’inoltrano fra le terre, sicché vedendole da lungi si sarebbe indotti a credere che fosse pianura anche là dove voi correte. E le vostre barchette non temono i venti; sicure raggiungono terra e mai non naufragano, perché la spiaggia e vicina. A tal sorta di trasporti vi serve la corda alzaia che la vostra gente di mare adopera in luogo di vela; ed il marinaio procedendo a piedi muove il pesante carico riposto nel naviglio. Mi fa veramente piacere (continua Cassiodoro) rammemorare qui ciò ch’io vidi co’ miei propri occhi della vostra patria. L’illustre provincia Veneta, un dì ricolma di nobiltà si estende verso mezzogiorno fino al Po ed al territorio di Ravenna, mentre verso oriente gode la vista stupenda dell’Adriatico. Quivi, per la vicenda del flusso e riflusso, ora appar terra, ora sembra ch’essa vi si sprofondi ancora sicché d’un tratto si vedono isole, ove poco prima una squallida pianura si mostrava a nostri occhi. E voi in tal dominio, da mare e da terra contrastato, voi vi avete erette le case come nidi d’uccelli marini; con fascine e con dighe sapeste collegare le vostre abitazioni; voi ammonticchiate la sabbia del mare per rompere le onde infuriate; e quella difesa, in apparenza debole, annienta la forza delle acque. Pesce è il cibo di voi tutti; la casa dell’uno è simile a quella dell’altro; perciò voi andate esenti da un morbo, che altrove rallenta i vincoli della società dall’invidia, cioè dalla gelosia dall’egoismo che surgono per la diversità delle condizioni. La vostra attività industriale è tutta rivolta a produrre il sale; gli spazi sui quali esso si consolida e asciuga vi rendono il servizio e l’utile del campo e dell’aratro. Il sale occupa presso di voi il posto che altrove ha il denaro coniato. E fortunati voi! Dell’oro si può far senza, non già del sale, che è necessario condimento di tutti i cibi...

e così via.

La lettera del Cassiodoro ci conferma che le isole venete costituivano una repubblica federativa governata da tribuni; che questo stato era in buone relazioni coi dominatori di terra ferma; che possedeva cantieri provveduti di ottimi velieri per la navigazione marina e buone barche pel traffico fluviale, esercitato col sistema dell'attiraggio tuttora in uso, ed altre per la pesca; che gli abitanti delle isole erano marinai robusti, esperti, attivi, parchi, i quali vivevano modestamente in anguste capanne cibandosi di pesce; che era molto curato il commercio nei più lontani mari e che la lucrosa industria del sale era in fiore.
Interessantissima poi riesce l’affermazione del Gran Cancelliere che questi abitanti andavano esenti dai mali morali che affliggevano la terra ferma”
Saltiamo un pezzo e andiamo subito a leggere quali erano i mali della grande città, allora come ora:

La sobrietà di questo popolo era veramente eccezionale, se avendo mezzi facili per provvedersi di cibi graditi preferiva il pesce. Nel vestire, poi, lasciava il finissimo bisso per la grossa lana delle vicine terre e indossava il saio corto a preferenza della toga, il pileo al cappello. Il vestito comune consisteva nel copricapo a mitra, giacca a sacco, calzoni larghi, sandali ai piedi, cintura con daga al fianco e una collana al collo. Il pescatore e il marinaio si distinguevano dal berretto, il cacciatore pel cappello, il soldato per l’elmetto. Le armi si riducevano ad una daga o stocco da punta e taglio, alla lancia e alla freccia. Al desco frugale non v’erano tovagliata, le posate, i bicchieri: si mangiava in rustiche scodelle in unico catino, un vaso di terra serviva a dissetare tutti i commensali. Nelle isole non si conoscevano amori sdolcinati, sfibranti: in un dato giorno le fanciulle si adunavano al tempio e i giovani sceglievano fra esse la sposa. La donna era rispettata secondo la religione cristiana; la morale, la buona fede, la fratellanza, la libertà regnavano sovrane.

A citar il Plateo che cita Strabone vi sarà venuta voglia di abbandonare il libro di Carlo Dariol e cominciare da quelli, e vi consiglio di farlo. Ma loro non parlano di Croce di Piave, e se io tanto rubo a loro è perché la situazione doveva esser per la “croce del Piave” assai simile, se non la medesima appunto, di quel che accadeva attorno.

Che la Piave dovesse essere la principale attrice per la località della croce non è dificile da credere: nel corso dei secoli essa continuò con tremenda regolarità a far parlare di sé, e ci par buono citare l’inondazione dell’820. [chi la cita?]

Ma quando comparve ufficialmente per la prima volta il nome “Croce di Piave”? Nell’XI secolo.

A confermare che questo non sarà un libro algido (=privo di passione), ricordo che l’altrettanto prosaico toponimo “Musil” (diga, argine, ma anche recinto coltivato) comparve intorno all’anno 836 e corrispondeva ad alcune case sulle rive della Piave. Destra o sinistra? Pare sinistra. Qui fu costruito il primo edificio sacro in onore di san Donato, vescovo e martire. Quale san Donato? Già, perché di santi Donati ce ne sono ben undici; ma solo tre furono vescovi; e cioè il vescovo di Fiesole, quello d’Arezzo, e quello dell’Epiro, contrada dell’antica Grecia sul mar Ionio, oggi compresa nell’Albania soggetta ai turchi. La Curia Trevigiana all’inizio del XX secolo stabilì che si trattava di quello d’Arezzo (festa il 7 agosto), e in conseguenza di ciò il Comune di Musile in anni recenti ha stabilito un gemellaggio appunto con la città di Arezzo.

Citando di straforo che l’invernata dell’860 fu tremenda e lo spessore del ghiaccio sui corsi d’acqua fu tale da permettere ai carri di transitarvi sopra; che il 1084 fu funestato da alluvione e pestilenza, quest’ultima dovuta alle «meteore», e che il 1110 fu di nuovo afflitto da un’alluvione, dobbiamo notare che le inondazioni erano all’ordine del giorno, in un’epoca in cui la manutenzione degli argini era assunta collettivamente dai proprietari dei terreni rivieraschi: gli argini erano di fatto in stato di abbandono ed erano limitatissime le risorse economiche impiegate per creare valide opere difensive.
Per cambiar calamità, nel 1117 e 1128 vi furono scosse di terremoto.

Ma torniamo alla storia di san Donato. Ecco come andarono le cose per il Plateo:

“Il doge Michel, espugnato Tiro e occupati altri luoghi nella guerra sanguinosa sostenuta dai crociati di Terra Santa contro i profanatori del tempio di Cristo, fatto un ricco bottino, nell’anno 1128 rimpatrio trionfante, portando seco, fra le cose più preziose per quei tempi, i corpi di S. Isidoro e di S. Donato, quest’ultimo vescovo dell’Epiro, trovato in un castello dell’isola di Cefalonia, la più grande delle isole Ionie della Grecia.
In quell’epoca il vescovo di Torcello per fuggire la malaria alternava la residenza fra Torcello e Murano, allora città fiorentissima con sessantamila abitanti, e il doge fece dono alla diocesi torcelliana delle reliquie di questo S. Donato. Il vescovo s’interessò del collocamento dei resti mortali del santo in modo particolare, e in breve la rinomata chiesa di S. Maria di Murano, che era stata edificata un secolo e un quarto prima e funzionava da duomo, venne restaurata radicalmente con pregevoli decorazioni, e in essa furono collocate le ossa di S. Donato, le quali ebbero così nel rinnovato bellissimo tempio degna dimora. Dal dono del doge Michel al completamento delle opere di restauro e abbellimento, passarono due lustri, come lo prova la data che ancora oggi si scorge nel pavimento del tempio (1140), da quest’epoca intitolato a S. Donato e ora dichiarato monumento nazionale.
La fama di questo santo dopo il 1140 incominciò a diffondersi rapidamente in queste terre, così da indurre i vescovi di Torcello, Treviso, Eraclea e Jesolo a costruire una cappella presso la Torre del Caligo, sul confine torcelliano, dedicata a questo S. Donato al duplice scopo di regolarizzare i confini delle diocesi, e di dar modo agli abitanti che incominciavano a ripopolare il territorio di compiere le pratiche religiose. La cappella nel punto di confine fu consacrata dopo il 1186, quando cioè queste terre non avevano ancora un nome proprio. Intanto gli abitanti delle terre vicine, che accorrevano alla cappella di S. Donato per venerare il titolare, affibbiarono il nome del medesimo alla comunità in formazione, sul cui territorio transitavano, e così questo luogo fu ribattezzato col nome del santo in voga”.

C’è chi invece afferma che quella cappellina era più a nord, là dove la Piave sembrava dividersi in due ampi rami, il Canal d’Arco e la Vecchia Piave. La zona era detta dei Musili, perché ricca di rialzi nel terreno arginati dal consolidamento dei cumuli di limo plavense.

L’abbazia benedettina del Pero

La prima notizia storica su Croce – indiretta ma non meno attendibile e che potrebbe avere tratto in inganno l’Agnoletti nell’attribuire al ritrovamento di una croce, di legno o di pietra, l’origine del nome del paese – la ricaviamo dalla storia dell’abbazia benedettina del Pero di Monastier e da quella dei suoi monaci, cui fu affidata la parrocchia di Noventa. A questo punto fareste bene a interrompere la lettura di questo libro e a leggere il bel libro di Ivano Sartor dedicato alla medesima, libro al quale attingerò sovente per le notizie dei secoli XI-XIV. Se non lo fate, o supponendo che l’abbiate fatto, continuiamo.

Nel Veneto, già prima dell’anno Mille, erano sorti diversi monasteri benedettini: a Pomposa, ad Aquileia, a Grado. Il monastero di san Pietro, detto poi di santa Maria del Pero, era sorto sulle rive dell’omonimo fiume Pyro (l’attuale Meolo) probabilmente intorno all’anno 958 (lì dove in seguito si sarebbe sviluppata la parrocchia, appunto, di ‘Monastier’). Nel 1027 il monastero era già un grande centro per tutta la zona tra il Sile e il Piave. Ecclesiasticamente dipendeva, con le sue adiacenze, dal Patriarcato di Aquileia, ma per il proprio mantenimento risultava autonomo.

Fino al Mille una vasta parte del Basso Piave, come anticipato all’inizio, era palude e fitta boscaglia, e i monaci benedettini, oltre che alla preghiera (“Ora…”), si dedicavano al disboscamento dei terreni, alla coltivazione delle terre abbandonate, pulivano i fiumi e ne consolidavano gli argini, aprivano solchi d’acqua nelle zone paludose dove regnava la malaria, riassettavano le strade (“… et labora”); non ultimo, provvedevano a diffondere il cristianesimo contribuendo alla conversione dei barbari. Man mano che si disboscavano le terre e si tiravano a coltura, e le popolazioni, per lo più nomadi, diventavano residenti, venivano loro consegnati poderi da coltivare, con l’unico impegno di riconoscerne l’originaria proprietà portando la quarantesima parte dei raccolti al monastero. S’andarono così formando i primi nuclei dei paesi nei terreni dei dintorni del monastero.

I terreni non di proprietà del monastero a volte lo diventavano per effetto di lasciti e donativi, così che il monastero andò accrescendo la sua importanza. Per ogni gruppo di case i monaci provvedevano alla costruzione di una piccola chiesa o di un oratorio dove la gente poteva soddisfare al precetto festivo, con annesso anche un modesto beneficio, cioè una piccola rendita per il mantenimento del sacerdote e per le spese del culto; oppure giungevano i benedettini stessi a celebrare la messa e poi rientravano in comunità. Una di queste chiesette fu costruita in prossimità della “crosera”. Siamo nel X o XI secolo.

In quest’isola di diritto patriarchino sorgono a volte questioni di decime tra i canonici di Treviso e i momaci del Pero. Una bolla di Eugenio III del 7 giugno 1145 richiama i canonici di Treviso all’obbligo, già in precedenza stabilito dalla sede apostolica, di non esigere le decime sui beni che i monaci coltivavano col loro lavoro o a loro spese. La vertenza riguarda i novali coltivati dai monaci, cioè i terreni di recente recupero all’agricoltura.

... diocesi di Treviso

Di nuovo papa Eugenio III interviene con un’altra bolla (la Justis Fratrum del 3 maggio 1152) a conferma dell’avvenuta elezione del vescovo Bonifacio alla cattedra di Treviso, in cui dichiara che la parrocchia di San Mauro in Noventa [affidata ai padri Benedettini del Monastero di Santa Maria del Pero] è possedimento del vescovo di Treviso. Tra le dipendenze episcopali vi è anche la “plebem S. Petri de Piro cum pertinentiis suis” e compete all’ordinario diocesano l’ordinazione di monaci e chierici in diversi monasteri, compreso il monasterium de Piro, espressamento richiamato.

3 maggio 1152

Eugenio vescovo, servo dei servi di Dio

al venerabile fratello nostro Bonifacio, vescovo di Treviso e ai suoi successori canonicamente sostituendi in perpetuo.

Acconsentire ai giusti desideri dei Nostri fratelli ed ascoltare le loro ragionevoli richieste conviene a Noi che, benché indegni di sedere nell’eccelsa specola dei principi degli Apostoli Pietro e Paolo, disponendo così il Signore, miriamo i cultori e banditori della giustizia. Perciò, o diletto in Cristo, Fratello Bonifacio vescovo, annuendo benevolmente alle tue giuste domande, riceviamo sotto la protezione del principe degli Apostoli e nostra la chiesa del beato Pietro di Treviso, alla quale, con l’aiuto di Dio, tu presiedi, e col privilegio del presente scritto, Noi la fortifichiamo. Decretiamo che qualunque possedimento e qualunque bene che la medesima chiesa possiede giustamente e canonicamente al presente o potrà ottenere, con l’aiuto di Dio, in futuro, per concessione dei pontefici, per elargizioni di re o di principi, per offerta di fedeli o con altri giusti modi, rimangano stabili e intatti a Te e ai tuoi successori, e per mezzo di Noi alla stessa chiesa.
Teniamo esporre pertanto queste cose con i propri vocaboli:

la chiesa di Santa Maria di Asolo, con il castello, la corte, e con tutte le sue appartenenze;
...
[segue la denominazione dettagliata delle temporalità del vescovado di Treviso, con l’ordine delle pievi della diocesi tra cui appunto]
...
La pieve di S. Mauro di Noventa con le sue appartenenze

Determiniamo perciò che a nessun uomo sia affatto lecito perturbare temerariamente la predetta chiesa o togliere le sue possessioni o trattenere quelle tolte, diminuirle o importunarle con certe vessazioni; ma tutte siano conservate integralmente quelle cose di coloro per il governo e il sostentamento dei quali esse furono concesse allo scopo di giovare in diversi usi, salva sempre l’autorità delle Sede Apostolica.

Se pertanto in avvenire qualche persona ecclesiastica o secolare, conoscendo questa pagina della Nostra costituzione, tentasse senza ragione di venire contro di essa, sia privata della dignità del suo potere e del suo onore.

A tutti quelli poi che al medesimo posto osservano le cose giuste sia la pace del Signore Nostro Gesù Cristo, finché e percepiscano qui il frutto della buona azione e presso il severo Giudice ottengano il premio dell’eterna pace. AMEN.

firmato: IO EUGENIO VESCOVO DELLA CHIESA CATTOLICA

[La bolla originale è conservata nell’Archivio vescovile di Treviso, pergamene, bacheca 1]

I beni, i diritti, i privilegi della diocesi trevigiana furono confermati ancora al vescovo Bianco con la bolla di papa Anastasio IV, del I dicembre 1153, e con la bolla di Adriano IV, del 2 gennaio 1156.

Perché abbiamo citato la parrocchia di San Mauro di Noventa? Perché il territorio della parrocchia di Noventa è piuttosto esteso, e verso sud giunge fino alla laguna veneta includendo, attenti attenti, la “Gastaldia di Croce” [lo afferma il Chimenton… Qual è l’anno del documento? Boh…] Ecco dunque Croce, appartenente al territorio della parrocchia di Noventa, entrare ufficialmente nella Storia come appartenente alla pieve di san Mauro di Noventa che è affidata all’amministrazione del monastero del Pero che dipende in spiritualibus dal vescovo di Treviso ma è proprietà del patriarca di Aquileia. Facile no?

Cos’è una ‘gastaldia’?

La ‘gastaldia’ è un territorio retto da un ‘gastaldo”, termine che deriva dal longobardo Gast = ospite più Halten =tenere, e indica colui che amministrava i beni patrimoniali del principe e arrivava fino ad amministrare la giustizia. Qual è il principe? Il patriarca di Aquileia, che non riuscendo ad amministrarli direttamente, li affida a qualche gastaldo.

Non vi sono specifici documenti storici per quanto riguarda la Villa di Croce, ma si può ritenere che i benedettini avessero da tempo edificato una cappellina a Croce perché nei documenti del Monastero del Pero è testimoniato che negli anni seguenti la piccola chiesa della Gastaldia venne ampliata più volte” [B. Mon. Pero, 1300].

Che Croce sia già da allora ben distinta da Musile lo dimostra una doppia separazione: amministrativa e religiosa.
Abbiamo detto (o l’ha detto il Plateo?) che le terre del Basso Piave a quei tempi erano incluse nell’Agro di Eraclea che si estendeva per circa 20 mila ettari e che tra di esse erano compresi 1.500 ettari dell’attuale territorio di Musile e di Croce. Ma se la maggior parte dell’Agro di Eraclea apparteneva al Dogado Veneziano (come Musile) ed era suddivisa tra le docesi di Torcello, di Equilo e di Cittanova, il territorio a nord dell’Annia comprendente tutta la Croce di oggi apparteneva politicamente al patriarca di Aquileia.

Anche dal punto di vista religioso vi era separazione: era sotto la giurisdizione del vescovo di Treviso il territorio di Croce, mentre era sottoposto alla giurisdizione del vescovo di Torcello il territorio musilense odierno, escluso l’attuale centro che apparteneva alla diocesi di Cittanova, cosa che fa pensare che la Piave da quelle parti scorresse allora un poco più a occidente.

Ma sia Croce che Musile non dovevano contare che qualche centinaio di abitanti. Non dovette perciò fare molti morti la peste che nel 1172 provocò tanti morti in tutto il trivixano [Romanin, Storia documentata di Venezia].

Nel 1176 papa Alessandro III, quale segno di riconoscenza per la conversione della Chiesa di Aquileia alla sua causa contro l’antipapa Vittore IV, le riconosceva la giurisdizione e i privilegi antichi, citando esplicitamente i venti magazzini o botteghe del Pero.

Il patriarca di Aquileia doveva avere difficoltà ad amministrare questi luoghi distanti, se nel 1177 preferì “donare” ad Ezzelino da Romano il Balbo che tornava dalla Terrasanta «la villa di Fossalta vicino alla Piave ed il castello di Mussa con tutte quelle possessioni e terre e boschi che al detto castello appartengono». [G.B. Verci Storia degli Eccelini, Venezia 1941]
Sotto il dominio di Ezzelino finì anche la Gastaldia di Croce. Non si trattava però di una vera e propria donazione: a Ezzelino fu concesso di esercitare su questi territori una sorte di avvocazia. In quello stesso anno, a pochi chilometri di distanza, Federico Barbarossa si riconciliava con papa Alessandro III nella Basilica di San Marco a Venezia, e nasceva la festa della “Sensa”.

Con la bolla originale di papa Lucio III, del I ottobre 1184 da Verona, fu chiarita la competenza “in spiritualibus” del vescovo trevigiano Corrado sull’abbazia del Pero; gli abati dovevano obbedienza al vescovo nell’eventualità che fossero investiti della cura d’anime; la bolla (come pure la successiva di papa Urbano III, del 2 dicembre 1185) attribuiva al vescovo di Treviso i possedimenti e privilegi jure proprietario, sul monastero del Pero, secondo la consuetudine ma, specificava la bolla, l’abbazia continuava ad appartenere al patriarcato di Aquileia.

Nel 1192 un certo Ussinello da Medade (=terra di mezzo, Meolo, forse l’attuale Losson) vendette a Ottone, abate del Monastero del Pero, tutta la terra che possedeva nella località detta “Gonfo” (pare che il nome derivi da “giunco” o “giuncaia”), situata nel territorio di Croce
[atti riportati nell’ASVE, b. 9, Catastico Sandei proc. 227 c. 4 del notaio Hermanno]

Nel 1203 i Veneziani devastavano Costantinopoli nel corso della IV crociata e nel 1214, al momento di ritirarsi in convento, Ezzelino detto il Monaco suddivideva i suoi beni tra i due figli assegnando ad Ezzelino i possessi nel trevigiano e ad Alberico quelli di Vicenza.
[MAURISIO, cronaca ezzeliniana… ]

Nel 1217 Domenico di Guzman passava per Noventa accompagnato dal patriarca di Aquileia Volchieri; devoto della Madonna qual era, diffondeva ovunque la Scuola del Rosario da lui fondata; e alla quale prima o poi anche Croce avrebbe aderito.
[D. S. Teker: Storia di un popolo, pag. 14]
Nell’Oratorio del Rosario, a fianco della chiesa, una lapide del 1717 ricorda la nascita del primo oratorio di devozione al rosario in occasione della visita di San Domenico di Guzman, avvenuta nel 1217.

Nel 1226 la siccità bruciò i raccolti e causò una moria di bestiame per mancanza di fieni; ne conseguì una terribile carestia.
[A. Battistella, La Repubblica di Venezia ne’ suoi 11 secoli di Storia, Venezia 1921]
Il 4 ottobre di quell’anno moriva ad Assisi san Francesco.

Nell’inverno del 1234 il gelo fece seccare la maggior parte delle viti e provocò un’elevata moria fra il bestiame.

Nel 1239 Alberico da Romano si staccò dal partito filo-imperiale del fratello e occupò Treviso, mettendosi sotto la protezione papale; qui esercitò il potere in unione con gli alleati Caminesi per poi impadronirsi completamente della scena politica, in un crescendo di terrore e repressioni.

Nell’anno 1248, un lustro circa dopo che Treviso aveva regalato alla repubblica di Venezia possedimenti di qua e là del Piave (Croce e Mussette) per mostrarsi grato al governo repubblicano, furono rettificati i confini delle diocesi e quella di Treviso si ebbe il territorio che aveva prima del 712, cioè del trattato fra Liutprando e Lucio Anafesto, e (una parte di) S. Donà passò dalla diocesi d’Eraclea a quella di Treviso senza tener conto del trattato con Ottone III. Tale notizia è recuperata dal Plateo.

Ma prima deviamo verso la leggenda.

La leggenda dei due capponi e del nome di San Donato

Nel 1250 o giù di lì una tremenda inondazione tagliò in due il paese di san Donato, lasciando la sua chiesetta a destra del fiume (così racconta l’Agnoletti), lasciando supporre che la chiesetta si trovasse prima sulla sinistra e che il fiume corresse più a occidente. Quando le acque si ritirarono le famiglie rimaste a sinistra non si persero d’animo e con fiducia costruirono un’altra chiesa dedicandola a san Remigio, vescovo di Reims: se lui tanti secoli prima era riuscito a conquistare il cuore del re pagano Clodoveo battezzando tremila franchi, anche loro l’avrebbero finalmente avuta vinta contro quegli scherzi d’acqua e del destino. Ma si sa che quando ci si affeziona a qualcuno, sia una moglie, un figlio o un santo, è difficile d’un tratto staccarsene. Presi dalla nostalgia gli abitanti di San Remigio vollero in qualche modo ricordare nel nome del paese l’amato santo. Tanto fecero e tanto pregarono che alla fine convinsero i vicini di Musile a lasciare alla frazione cresciuta intorno alla cappella di San Remigio il nome di San Donato; Musile, dal canto suo, conservò il titolo nella chiesa parrocchiale. Ciascun paese possedeva dunque un importante riferimento a san Donato e la questione, che rischiava di degenerare in rivalità accesa fra le frazioni, fu finalmente risolta, con la donazione di un paio di “gallos eviratos”. (La cerimonia organizzata per suggellare quello che ancor oggi si chiama “Patto di amistà” risale al 7 agosto di un anno imprecisato del XVI secolo.) Questa almeno la storia che Musilotti e Sandonatesi amano ricordare.

Nel contesto di una tarda azione di recupero di beni già patriarcali apprendiamo di una dichiarazione rilasciata il 31 ottobre 1253 da Reprandino, procuratore di Alberico da Romano, al patriarca Gregorio da Montelongo, nella quale elencava tutti beni tenuti in feudo: la corte di Medade con il castellar di Medade, le ville di Medade, Angaran, Carpenedo, Gonfo, Pralongo, Ansom (Zenson?), Meolo, Mardegane, il porto di Meolo e la villa di Croce.
[Museo Correr di Venezia, ms. PD-C 970/16, 23 aprile 1464]

La riconciliazione di Alberico col fratello Ezzelino (1257) avvenne in un periodo di difficoltà per entambi: contro di loro la Chiesa emise condanna di scomunica e indisse una crociata di liberazione dai perfidi “tiranni”, alla quale concorsero i numerosi fuoriusciti di Treviso, raccoltisi in Venezia. La drammatica fine della stagione ezzeliniana, protrattasi per oltre un secolo culminò con la “strage di San Bartolomeo” in cui l’intera famiglia dei da Romano venne annientata nel castello di San Zenone (1260). Il Consiglio Maggiore della città di Treviso provvide a incamerare i feudi della famiglia e, dando per certi anche i diritti di subingresso nell’avvocazia ezzeliniana sui feudi e sui beni dell’abbazia del Pero, fece occupare i boschi della Martellia [Marteggia] e della Silvella [Fossalta] presso la Piave; in particolare nel 1261 avocò a sé la «Curia di Mussa e di San Donato e la Villa di Croce appresso la Piave» [A. Marchesan, Treviso Medievale,Treviso 1924] nonostante l’opposizione del patriarca aquileiese che le avrebbe rivolute indietro.

Il patriarca di Aquileia Gregorio da Montelongo vendette allora la prima al veneziano Marco Querini e la Villa di Croce al Nobil Homo Albertino Morosini di Venezia. Si scatenò una contesa tra il Comune di Treviso e il patriarca di Aquileia.

Notizie di questa contesa si leggono nel Pavanello che le riprende dalla Storia della Marca Trevigiana del Verci, il quale riporta che nel 1285, in una causa che il Comune di Treviso aveva sostenuto col vescovo di Feltre, alcuni testi avevano parlato dei beni del patriarca di Aquileia.

Interrogato allora uno ch'era vissuto a lungo nel Monastero del Pero, aveva risposto che i Trevigiani esercitavano la loro signoria nelle terre intorno da ventisei anni (in questi anni egli era vissuto nel monastero); come avessero incominciato non sapeva. Interrogato come sapesse ciò, aveva risposto che li aveva veduti esercitar l'avocazia e il contado e che sempre v'era questione tra loro e il Patriarca.
Interrogato se li aveva veduti esercitar continuamente la detta giurisdizione, rispondeva che sì, tranne per otto mesi, nel qual tempo aveva veduto farlo il patriarca Raimondo ovvero i suoi gastaldi. Interrogato con quale diritto l'esercitavano, e in che consisteva, rispondeva che essi ne assumevano l'avocazia, dicendo d'essere gli eredi di quelli da Romano e che consisteva in ciò, ch'essi avevano fatto e facevano quel che negli altri luoghi del loro distretto.
Interrogato chi fosse allora capitano e chi podestà del comune, rispondeva che il capitano era Gerardo da Camino [il buon Gherardo di Dantesca memoria, che tanto buono la Storia ha dimostrato non essere] ma che anche prima del capitanato di questo, quella terra era del Comune trevigiano e che del podestà nn si ricordava.
In seguito a un'altra domanda rispondeva ch'essi esercitavano la loro signoria in tutte le terre del Patriarcato tranne i S. Polo e in S. Giorgio.
Queste domande riguardavano l'articolo XXVI; si passò quindi all'articolo XXVII.
Intrrogato in qual tempo i detti signori avevano incominciato a imporre angaria e perangaria e colletta agli abitatori, rispondeva che da quarant'anni il facevano, per quanto si ricordava.
Interrogato se lo aveva veduto imporre, rispondeva che aveva veduto imporle a Frasseno, al maestro Zasse, a Domenico suo figlio, a Zambono, a Lorenzo di Medade e a tanti altri dei luoghi intorno, dei quali non si rammentava.
Interrogato che cosa fossero questi diritti, rispondeva che l'angaria consisteva nel fare le riscossioni del Comune, che non sapeva che cosa fosse la perangaria, e che la colletta consisteva in un certo contributo, che il contadino pagava in moneta al padrone del maso da lui tenuto.
Interrogato se aveva veduto qualcuno pagare edeseguire le dette imposizioni rispondeva che sì, ed interrogato con qual moneta rispondeva che l'aveva veduto fare con moneta d'argento e con piccola moneta veneta.
Oltre a ciò lo stesso teste diceva che il Comune di Treviso poneva suoi gastaldi nei boschi della Martellia [Marteggia] e della Silvella [Fossalta] e che i Gastaldi a lor volta ponevano guardiani (salteros), i quali se trovavano delle barche, le prendevano, le bruciavano e imponevano ai proprietari una multa.
Dopo questo fu udito un altro teste, Marco degli Albignoni, il quale sostenne di aver veduto le stesse imposizioni venir fatte dai Trevigiani nella Villa del Monastero del Pero, in Medade [Losson], in Croce, in Carpenedo ed in Meolo. [Verci, Storia della Marca Trevigiana tomo III pagg. 119 e segg.]
Ora null'altro di più s'udiva.
Si ascoltava quindi il procuratore del Patriarca che riassumeva la questione in alcuni capitoli, dei quali questi sono i più importanti:
(VII.) Che il monastero del Pero posto nel distretto di Treviso spettava al Patriarca e alla chiesa aquileiese nella giurisdizione spirituale e temporale di pien diritto, e in modo particolare in forza di concessioni e di privilegi della Sede Apostolica ed in forza dell'ordine promulgato dal venerabile padre Ugone vescovo di Ostia e di Velletri, vero legato del Pontefice, e confermato con sicura conoscenza dalla stessa S. Sede, e che spettava ad essa già or sono cinquant'anni e prima, e che da indi innanzi le spettò sempre.
(XI.) Che la villa di Croce spettava al Monastero del Pero ed era fra le pertinenze sue. [Verci, Storia della Marca Trevigiana tomo IV pag. 86]

Prima di riprendere i dettagli della contesa ricordiamo le calamità naturale di quegli anni:
1269: carestia causata da una cattiva annata agricola; e scossa di terremoto;
1276: alluvione; e inverno particolarmente rigido;
1285: terremoto;
1287: carestia causata da una cattiva annata agricola; tutto il Veneto è attanagliato dalla fame.

Le calamità seguivano i ritmi della tombola.

Per una trattazione completa dell’argomento vedi
CARLO DARIOL - Storia di Croce Vol. I - IL PAESE DELL'INVENZIONE
dalle origini all’arrivo di Don Natale (1897), Edizioni del Cubo

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