HISTORIA de CROSE
il 1955



Morte e funerale di don Natale

Giovedì, 10 marzo 1955. La Giunta Comunale, riunita dalle ore 19, aveva preso ad esaminare tutte le questioni all’ordine del giorno. Guidava i lavori il sindaco Ernesto Poletto, erano presenti tutti gli assessori. Tra le prime cose si deliberò il pagamento a Maschio Alessio, rappresentante di commercio ambulante del centro di Croce, di una fattura di 2.300 lire per la fornitura in data 17 gennaio di materiale vario per la pulizia delle scuole del centro e a Diquigiovanni Paolo, titolare del bar-rivendita alla Fossetta, (fattura del 23 gennaio ammontante a 580 lire) per la fornitura di materiale vario per la pulizia scuola Fossetta. Con la delibera n.° 16 fu deciso ciò che già era stato fatto in data 18 gennaio, ossia un trasporto di 18 quintali di legna alle scuole di Croce e altrettanti alle scuole della Fossetta. In merito alla richiesta di Antonio “Nani” Conte, che il 3 febbraio aveva fatto richiesta di avere gratuitamente il materiale necessario per riparare la sua baracca fatiscente, baracca che l’assessore Peruch era andato a controllare per stilare la sua relazione, la Giunta deliberò di fornire, “a scelta del signor Conte Antonio, o tre tavole, tre pilastrini e cinquanta pietre, (ovvero tredici blocchi), oppure una trave da 4 metri”. Delibera dopo delibera la seduta di Giunta si dilungava a occupare la serata.

A Croce i giovani della G.I.A.C. (Gioventù Italiana di Azione Cattolica), cominciavano a uscire dalle loro case, diretti, come ogni giovedì, all’adunanza che si teneva nella sala riunioni, la più grande delle stanze ricavate pochi mesi primi nella tiesa sopra la stalla della canonica, alle quali si accedeva per una scala esterna, costruita essa pure ex novo sul retro della canonica.



piano terra



primo piano



Il retro della canonica e le piante di piano terra e primo piano dopo i restauri del 1954

I primi che arrivarono, trovato l’ingresso in cima alle scale ancora chiuso, ridiscesero e bussarono alla finestra dello studio di don Ferruccio, giusto a piè della scala; il cappellano indicò loro la porta posteriore della canonica; poi che li ebbe fatti entrare, li fece attendere nel suo studio mentre terminava di sistemare alcune carte. Fu in quel momento che la mole dondolante di don Natale, appena uscita dalla cucina, ostruì per un attimo la porta dello studio di don Ferruccio: el vecio avvisò che andava a letto perché non si sentiva bene. Don Ferruccio annuì, i giovani lo salutarono: «Bonanotte, piovan»; «Bonanotte, tosati» rispose il paroco con poca voce. I ragazzi guardarono il colosso uscire lentamente dal vano della porta e quasi aggrapparsi al corrimano della scala. Erano quattro o cinque giorni che el vecio non stava bene, dalla domenica passata, quando s’era messo a letto in preda a una spossatezza inusuale. Già, perché era sempre stato bene in vita sua don Natale; in gioventù pareva che fosse stato male, ma nessuno sapeva di cosa; e nessuno ricordava che fosse rimasto a letto un giorno, nemmeno quando – due anni prima – era caduto dal gradino dell’altare e s’era rotto una gamba. Però non era più riuscito a camminare bene da quella volta, tant’è che s’era anche fatto costruire un carrettino a motore per farsi accompagnare in giro; ma, gambe a parte, aveva continuato a godere di buona salute; “mica come il cappellano che ha sempre qualche magagnetta ed è delicatino”, come amava ripetere don Natale ai parrocchiani più fidati.

Don Ferruccio, vedendolo salire la scala con affanno, ripensò a quello che nei giorni precedenti, in separata sede, gli era stato detto dal giovane medico condotto del paese, Tano Rorato, che aveva visitato il vecio e s’era convinto che non gli rimanessero che pochi giorni di vita; e forse ebbe pietà di quell’osso duro di prete che gli aveva dato tanto filo da torcere prima di concedergli qualunque responsabilità nella conduzione della parrocchia; era accaduto solo qualche anno prima, e più per intervento ufficiale della Curia e del vescovo, che avevano d’autorità nominato il cappellano ‘adiutor’, che per i desideri del vecio. La Brigida, la sorella di don Ferruccio che viveva in canonica e gli faceva da perpetua, nella stanza a fianco riassettava. In cucina, a pulire el fogher era rimasta l’Autilia Biasi, la ‘serva’ siciliana di don Natale che alcuni giovani del paese si divertivano a canzonare per il suo accento straniero.

Un folto capannello di ragazzi s’era intanto formato sul retro della canonica, ai piedi e lungo la ringhiera della scala esterna della sala riunioni. Don Ferruccio fece segno a quelli che erano entrati che era tempo di uscire: quelli obbedirono e il cappellano richiuse a chiave la porta; quindi passò in mezzo a due ali di ragazzi e salì al pianerottolo della scale. «Tosati, stasera se metén in tel saeotin grando, che se sta pì caldi» disse girando la chiave. Non era vero che nel saeotìn grando sarebbero stati più caldi, anzi, al contrario, avrebbero avuto più freddo perché il salottino era la stanza più a nord dello stabile; ma qualcuno intuì che la pietosa bugia era detta per risparmiare a don Natale di udire la cagnara del giovedì: la stanza delle riunioni dell’Azione Cattolica confinava infatti con la camera del vecio; mentre el saeotìn grando ne era separato proprio da quella.
Discutevano i ragazzi col cappellano, e contemporaneamente discutevano gli assessori in Giunta a Musile per approvare il prolungamento dell’acquedotto lungo la via Casera [delibera n.° 24], quando all’improvviso, la riunione più importante fu disturbata da alcune urla che si sentirono giungere prima dal corridoio del reparto notte dei parroci, e poi alla porta del saeotin grando: «Don Ferruccio! Don Ferruccio!!...» Era la Brigida, e dietro di lei giungeva l’Autilia, urlante a sua volta: «Non si’mmuove più! È morcio! Un parroco è morcio [=Non si muove più! È morto!]»
Erano le otto . La notizia gettò lo scompiglio nel gruppo: tutti uscirono rapidamente dal salottino, i più spaventati si precipitarono fuori del salone, giù per le scale e scapparono a casa, i più coraggiosi vollero andare a vedere cos’era successo e si portarono nel corridoio, dove, oltre la prima porta a destra, videro la scena che avrebbero ricordato per tutta la vita: don Natale era a terra, appena giù del letto, disteso sulla schiena, con le braccia aperte, come un Cristo in croce. I commenti e le parole che descrivevano la scena di bocca in bocca percorsero a ritroso il cammino e raggiunsero quelli che erano già usciti: «’L é el prete, ’l é in tera, morto, ’l é morto». Don Ferruccio pareva come imbambolato: un po’ schifiltoso per natura, non aveva il coraggio di toccare il corpo del vecio e ancor meno di ascoltare se il cuore del vecio battesse ancora; fu Aldo Sgnaolin, uno degli anziani dell’Azione Cattolica, quasi trentenne, che tentò di sollevarlo ma da solo non ce la faceva perché don Natale pesava più di un quintale; e allora chiese aiuto a Piero Susin e al cugino Joani Sgnaolin; finalmente in tre riuscirono a sollevare il vecio e ad adagiarlo sul letto; gli praticarono un massaggio sul stomego che non diede risultati, quindi provarono a suffiarghe in boca: nulla da fare, il corpo del vecio non reagiva.

Come sempre nelle disgrazie prive di testimoni, tutti avevano cominciato a produrre ipotesi: don Natale per qualche motivo, dopo essersi coricato, s’era alzato dal letto, forse per andare al bagno, e quando era ritornato in camera, nello sforzo di risalire sul materasso non ce l’aveva più fatta perché il letto, alto come i letti alti di una volta, era diventato improvvisamente troppo alto per le sue forze; il cuore, il suo cuore malandato da tempo, doveva aver ceduto di schianto… Non poteva che essere andata così.
I ragazzi intanto erano spariti quasi tutti; in canonica erano rimasti Bepi Sgnaolin, Cesare Davanzo, Piero Sforzin, Aldo Sgnaolin . Arrivò il medico? Qualcuno era andato a chiamarlo? Nessuno ricorda con precisione, ma lo ipotizziamo.
Occorreva lavare e rivestire il corpo sacro: uno dei ragazzi guardò nell’armadio per cercare un abito pulito, ma non se ne trovò nessuno, e non “nessuno-che-fosse-dignitoso” ma “nessuno-di-numero”, c’era solo la vecchia pastrana che don Natale si buttava sulle spalle nei giorni più freddi dell’inverno. Come tutti sospettavano, quello che ora giaceva sulla sedia in parte al letto era l’unico abito posseduto da don Natale, lo stesso con cui da anni girava, gualcito sugli orli e ovunque onfegà ; era impensabile di rivestirlo con quello. Aldo andò allora in chiesa a prendere i vestiti sacri con cui don Natale diceva messa, ché quelli almeno erano in ordine. Ne prese uno e tornò in canonica, e aiutato da Piero Sforzin e dagli altri, si assunse il pietoso compito di lavare el vecio. Venne anche Lava, l’uomo che girava spesso per la canonica perché faceva diversi mestieri per don Natale. Ma poi lasciarono il compito a Domenico “Meto” Antoniazzi, fabbriciere, che era già uomo fatto ; fu chiamato a dare una mano anche Giovanni Scatamburlo che era quello che veniva a fargli le punture e doveva avere qualche confidenza col corpo di don Natale..
Qualcuno dice che in ultima, senza più un soldo, don Natale non s’era nemmeno comprato le punture che il dottore gli aveva ordinato.

L’uomo che aveva speso la sua vita per il paese giaceva ora gonfio sul pavimento come un animale da ingrasso che attendesse di essere fat su [=insaccato]. Poi che fu lavato e rivestito, Aldo gli prese le misure per la cassa: prese lui l’impegno di andarla a comprare il giorno dopo, lui “che era l’unico dell’Azione Cattolica la cui famiglia possedesse cavalla e carretto” .
Alla fine delle meste operazioni il cappellano diede appuntamento a tutti per l’indomani: a Cesare e Bepi, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Azione Cattolica per la mattina, perché lo accompagnassero a Treviso in Curia; ad Aldo per il pomeriggio, per consegnargli i soldi per l’acquisto della cassa. Con le ultime istruzioni li congedò e li accompagnò all’uscio; quindi, data la buona notte alla Brigida e all’Autilia, si ritirò nella sua stanza, a pregare e a ricordare.
Lasciamo don Ferruccio ai suoi pensieri e attraversiamo d’un balzo la notte.

La mattina successiva, “prima delle otto”, Cesare era già in canonica, per le incombenze di rito: innanzitutto bisognava recuperare i soldi che el vecio avesse lasciato per le spese del funerale; don Ferruccio salì nella camera di don Natale e portò giù la cassetta dove il parroco teneva i soldi; con la chiave recuperata da una delle profondissime tasche dell’abito di don Natale, aprì il lucchetto della cassettina e tirò fuori le banconote e le monete che vi erano contenute; con Cesare si mise a contarle sopra il tavolo: in tutto v’erano 21.000 lire e qualche moneta, nient’altro. Appena 21.000 lire! Don Ferruccio si meravigliò perché una decina di giorni prima aveva consegnato a don Natale i soldi ricavati dalla vendita del soturco del quartese: dov’erano finiti? Forse che il vecchio li aveva già dati in beneficenza? Si cercò in tutta la stanza ma non fu trovata altra lira. In quella arrivarono anche Bepi e altri del paese: venivano a vedere, a chiedere, a offrire un aiuto.
Le 21.000 lire non bastavano certamente a pagare la cassa e le altre spese del funerale. Don Ferruccio disse allora che era il momento di passare a raccogliere soldi per il paese: bisognava specificare che erano per il funerale, dato che non c’erano in canonica soldi bastanti. Tra i convenuti, Toni Sgnaolin si dichiarò contrario. Anche altri stupirono che il paroco non avesse che poche lire; ma tant’era.
Poi si decise ugualmente di passare a soldi per il paese.
Con la proverbiale flemma che lo avrebbe consegnato alla storia, arrivò in canonica il medico condotto, Tano Rorato, e constatò il decesso. Possibile che giungesse solo la mattina? Ricordi e supposizioni si mescolano e si confondono. Quindi don Ferruccio si recò a Treviso in Curia con Cesare e Bepi a raccogliere istruzioni per la condotta da tenere per il funerale e nei giorni successivi.

Giunti in Curia a Treviso, i tre chiesero del vescovo. Il portiere andò a chiamare il cancelliere vescovile Silvio Zavan che li accompagnò da monsignor Mantiero e, in presenza di sua eminenza, compilò il foglio prestampato di nomina a vicario:

CURIA EPISCOPALIS TARVISINA

Dilecto Nobis in Christo R.do D.no Sac. Ferruccio Dussin Liberalis filio, salutem in Domino.
Vacante Parochiali Ecclesia Inventionis S. Crucis de Cruce Plavis per mortem adm. Rev.di D.ni Natalis Simionato (ultimi et immediati ejusdem Ecclesiae Rectoris) die 10 martii 1955 vita functi ne Ecclesia ipsa hoc interim suis fraudetur obsequiis aut aliquod in divinis detrimentum patiatur et cura animarum illius Parœciæ negligatur, Te Rev.dum Sac Ferrucium Dussin de cuius idoneitate plurimum in Domino confidimus, in Vicarium Spiritualem dictæ Parœciæ Inventionis S. Crucis de Cruce Plavis Auctoritate Nostra Ordinaria constituimus et deputamus, cum facultate curam animarum inibi exercendi, Ecclesiastica Sacramenta populo illi subiecto administrandi, ceterasque peragendi functiones qui ad Parochum pertinent.
In quorum fidem etc.

Datum Tarvisii ex Curia Episcopali
die 11 Martii 1955

Il cancelliere porse il foglio al vescovo per la firma finale, quindi lo piegò, lo infilò in una busta e la consegnò a don Ferruccio. Il vescovo diede al cappellano adiutor, ora vicario, qualche ultima indicazione sulla condotta da tenere nei giorni a venire, gli fece gli auguri e, porgendogli la mano, gli fece capire che lo stava congedando. Don Ferruccio si inginocchiò e gli baciò l’anello, altrettanto fecero i due giovani accompagnatori, quindi tutti e tre uscirono dalla stanza, cercarono le scale e uscirono dal palazzo. Era una giornata di sole.

I ragazzi della G.I.A.C., tutta la mattinata in giro per le case, erano riusciti a raccogliere cinquantamila lire che furono consegnate ad Aldo, perché si recasse a San Donà ad acquistare la cassa. «Ma io per adesso non glie ne do neanche uno» disse Aldo, respingendo la somma: «A funerale avvenuto sarà meglio che vada don Ferruccio a regolare le spese». Con cavalla e carretto Aldo partì quindi per San Donà, alla volta del negozio di casse da morto di fianco al municipio; scelse una tra le casse più grandi, data la stazza del defunto, e più economiche; quindi si fece aiutare a caricarla sul carretto, ci buttò sopra una coperta che aveva portato da casa apposta per coprirla ma che riusciva solo in parte nello scopo, e ci salì sopra a cavalcioni, per tenere la coperta ferma sulla cassa e la cassa ferma sul carretto; in quelle condizioni riprese la strada di casa. Appena attraversato il ponte, manco a farlo apposta, incontrò la Polizia che alla vista di quello strano cavaliere a cavallo di una malcelata cassa da morto, gli intimò di fermarsi:
«Alt! Contravvenzione!»
«A che scopo?» chiese Aldo.
I poliziotti gli fecero notare che non poteva andare per la strada in quelle precarie condizioni, con una cassa da morto mezza in vista. I poliziotti manco sapevano chi era don Natale e quali erano i suoi poteri. «Ma vuole intrigarsene col prete da Croce? – rispose Aldo a colui che gli aveva parlato – Guardi che Dio la castigherà! Io ho solo fatto un’opera di bene e di carità per tutto il paese; se volete venire al funerale, siete ben accetti. Non ho mica commesso sacrilegio. Quello che faccio è per il mio prete, che mi voleva bene». I poliziotti, privi di argomenti efficaci contro una difesa del genere, lo lasciarono andare .
Poi che Aldo fu giunto in canonica, i ragazzi gli diedero una mano a scaricare la cassa e a portarla nella stanza dei giochi dei ragazzi, anch’essa ricavata nella tiesa sopra la stalla, “dov’erano i biliardi” fatti arrivare da don Ferruccio. Il paroco, rivestito di tutti i paramenti neri, fu deposto nella cassa, e la cassa sistemata su di un catafalco, con quattro ceri agli angoli della bara. Il coperchio della bara era in piedi, appoggiato al muro. “Appoggiato al biliardo”.

Apertura del testamento

Il venerdì pomeriggio convennero in canonica i parenti di don Natale, alcuni dei quali giunti di corsa da Brescia per la lettura del testamento.
Don Ferruccio mostrò ai familiari la busta gialla contenente il testamento che don Natale aveva scritto undici anni prima, in piena guerra, nominando esecutore testamentario il cappellano di allora, don Mario Paccagnan, ovvero il cappellano che eventualmente gli fosse succeduto. E quindi, disse don Ferruccio, toccava a lui di aprire la busta: estrattone l’unico foglietto a quadri contenuto, lesse senza difficoltà la chiara scrittura di don Natale: il paroco lasciava tutto ai poveri della parrocchia. Ci fu qualche attimo di tensione nella stanza: «Perché tanta fretta?» chiese il nipote ingegnere giunto da Brescia. Non c’era per caso qualche altro testamento più recente? No, non c’era stata nessuna fretta e non c’era nessun altro testamento, rispose don Ferruccio, quelle erano le indicazioni date dalla Curia. La lucida sbrigatività del cappellano irritò un poco i familiari, forse delusi che lo zio non avesse lasciato nulla alle nipoti che tanti anni avevano servito in canonica. Tutto ai poveri. Ma quel tutto ormai non era che niente, sì e no qualche attrezzo della caneva, qualche libro della biblioteca. Don Natale ai suoi poveri in vita aveva già distribuito la vita, oltre che gli averi.
Furono aperte le porte della canonica e il pubblico, già numeroso sul cortile della canonica, iniziò la processione, su per la scala interne e lungo il corridoio che passava davanti alla camera di don Natale e di qui nella sala giochi dove era la bara, il tempo di una preghiera, d’un saluto, e quindi di nuovo fuori per la scala posteriore.
Durò tutto il pomeriggio e la sera il viavai dei parrocchiani in canonica: prima giunsero quelli della piazza, poi quelli dell’Argine (le vecchie Scuole San Rocco), della Càe de Fero e della Fossetta…

[Dai ricordi di Mario Barzan]
Furono Nani e Pello Conte e Gennaro Paludetto che vennero a dare la notizia che la sera prima il paroco era morto. Capitò Nani Conte in bar, io mi diedi una sistemata e mi preparai a uscire. Nani mi chiese dove andavo. «Bisogna che vae trovar el piovan, bisogna che vae vedarlo» gli risposi. «Vegne anca mi» mi disse. E andammo insieme.

Giunsero molti dalle Millepertiche e dalle Trezze, territori che quindici anni prima facevano parte della parrocchia. E molti giunsero dalle Case Bianche, la ricca frazione della Bonifica che era stata staccata dalla parrocchia di Croce e annessa a Musile nel 1924, molti che conservavano vivissimo il ricordo del paroco che aveva combattuto con la Curia per non cedere la frazione a Musile.
E mentre davanti al feretro si dicevano le orazioni per l’anima del defunto, qualcuno, alludendo alle lunghe prediche del vecio, scherzò sul fatto che la predica del giorno dopo forse non sarebbe stata lunghissima. Tutti avevano negli occhi le immagini delle ultime messe del parroco all’altare che tormentava il fazzoletto con le mani mentre predicava con la sua parlata strascicata e lenta, ma soprattutto negli orecchi la voce instancabile che ogni volta perdeva la cognizione del tempo e si lasciava andare alle invettive contro i falsi profeti; e quelli che non andavano a messa avevano nell’orecchio il rumore del carrettino a motore col quale negli ultimi due anni el vecio si era fatto portare in giro come un papa per le strade della parrocchia e al mercato a San Donà. «’Tenti, ’tenti, che riva el prete da Crose!» dicevano scansandosi dalla strada i ragazzi di Musile e di San Donà quando lo vedevano arrivare, accompagnato da Berto Finotto, il giovane nonzolo, o da altri. Giù del carrettino, il paroco camminava lentissimo. “El va pian co’ fa el prete da Crose” era diventato un modo di dire che aveva varcato i confini della parrocchia.

I fedeli, transitando davanti al feretro, confrontavano l’immagine ultima del paroco col ricordo che avevano del tempo in cui don Natale era stato energico e forte, un vero slavo!, che aveva lavorato sodo e lottato contro il Comune e il vescovo per tenere le Case Bianche, e questionato coi ricchi che non riconoscevano il quartese alla parrocchia, necessario per innalzare la sua chiesa alle Millepertiche…

Ma i ricordi dei parrocchiani, più che sulla sua antica forza di volontà, convergevano numerosi sulla indiscussa generosità che lo aveva portato tutta la vita a far la carità a chiunque gli chiedesse una mano e che l’aveva ridotto in povertà negli ultimi anni, quando non aveva più l’energia per far rispettare le consegne del quartese, “non come il prete di Musile, che sapeva farsi pagare a carri interi di uva e di frumento”; forse “anche i parenti che avevano vissuto con lui in canonica gli avevano mangiato un sacco di roba”. Ancora quella storia dei parenti, tutta da dimostrare! Passò una madre che ripensò capacità di don Natale di accomodarsi con Dio e di accomodare le cose degli uomini: in cambio di una zucca o di un carretto di pannocchie era capace di chiudere un occhio sull’orario di matrimonio di una ragazza incinta, da celebrarsi per regola prima dell’alba o dopo il tramonto. Chi era, era la Maria?, che era andata da don Natale a chiedergli che la sposasse in fretta che purtroppo era rimasta in conseguenze? C’era anche sua madre con lei, a rincuorarla, a darle man forte. Don Natale quella volta aveva chiesto la data di nascita della Maria, poi aveva cercato l’atto e l’orario di matrimonio dei genitori, controllato le date e, calcolando che anche la madre si era allora sposata incinta, aveva esclamato: «Chi de gato nasse, gnao fa».
Quante erano state le sue battute sempre pronte, colle quali aveva dissipato le preoccupazioni eccessive nei fedeli…
La Pierina si ricordò di quella volta che era corsa da don Natale disperata perché il figlio, anziché rimaner digiuno da mezzanotte, aveva fatto colazione prima della messa della Prima Comunione. Oddio, cosa si doveva fare adesso? E cosa si doveva fare… «Tranquìa, tranquìa… – l’aveva tranquillizzata el paroco – el Signor ’l é stat in mezzo ai do ladroni: tant mejo el sta in mezzo al pan e late».

Aldo Sgnaolin, di ritorno da San Donà, triste dopo aver acquistato la cassa da morto per il suo parroco, non poté non pensare alla giocondità che don Natale soleva dimostrare alla fine dei funerali, quando, al ritorno dal cimitero, una volta terminate le esequie, si lasciava andare, ma solo con gli addetti ai lavori (sacrestano e chierichetti), a salmodianti nenie surreali:

“Caminemo, caminemo
xe pì ’e scarpe che frughemo
che i schèi che ciapemo”
cantava se il defunto non aveva lasciato offerta o l’aveva lasciata troppa esigua. E se invece il defunto o la sua famiglia avevano lasciato una buona offerta egli commentava quasi allegro:
“’Ndemo piam, ’ndemo pian
magari ’n altro anca doman”.

Bepi Mariuzzo, dei Mariuzzi della casa all’inizio di via del Bosco, che prima della seconda guerra era stato fabbriciere, e faceva diversi lavoretti in canonica, e che el ghe copéa i porzèi, ricordò la volta che don Natale l’aveva preso in giro sulla faccenda dei conti: più volte egli aveva sollecitato il paroco a far conti e il paroco gli aveva ripetuto più volte «Va ben, Bepi, tien conti che dopo fén conti»

Il giorno che Bepi finalmente era capitato in canonica per fare conti, un giorno che anche noi Fornasier eravamo lì perché l’uva nostra la portavamo lì con quella sua del quartese e la pigiavamo insieme e poi in proporzione ci dividevamo il vino, Bepi si mise a far conti: «vien fora tanto…» Don Natale, come tutte le volte che qualcuno capitava in canonica, a portar quartese magari, aveva chiamato una delle donne di casa: «Neta! porta fora un butiglion che bevemo un goto in compagnia, un fià de pan e formajo…» E intanto che la Neta portava da bere e da mangiare lui consegnò a Bepi un foglio perché lo compilasse a mo’ di ricevuta: «Scrivi che ti sì sol tuo, che t’ha ricevù tutto, che ti si a posto, insoma…» Bepì scrisse quanto gli aveva chiesto e glielo restituì, poi stettero lì in compagnia, mangiarono un po’ di formaggio, bevettero, quindi don Natale si alzò: «Bepi, mi te asso che devo ’ndar dir messa. Ti sta pur qua, finissi…»
«Sior piovan, e i schèi?»
«Che schèi?»
«I schèi dee opere che son vegnù a far conti?»
«Ma no te ga firmà che t’ha ricevù tuto, che no te vanzi gnente? No’a é a to firma questa?» e gli mostrava la ricevuta che il fabbriciere gli aveva appena rilasciato.
«Sì, ma i schei no’l m’i ha dati…»
«E ora par cossa hatu firmà se no t’ho dat i schei?!»
E quando l’altro sbasì perché non sapeva più come replicare, il paroco aveva concluso tra il serio e il faceto: «Prima de firmar ghe vol i schei in man!!!»
[dai ricordi di Marcello Fornasier]

Era furbo don Natale, “che la faceva a tanti ma era difficile farla a lui”. Nando Fornasier ricordò quella volta che era venuto un acquirente a comprare vino in canonica.

Lui vendeva buona parte del vino che produceva, a botti, la gente andava ad assaggiarlo e lo comprava. Giunse un acquirente con due botti, c’era anche Nando, mio padre, quella volta, e caricarono.
«Femo conti che dopo mi vado via» disse il prete. L’altro tirò fuori l’assegno e lo consegnò al paroco, che lo guardò. Don Natale non si fidava degli assegni «Ma che schèi xei? Xei schèi?»
«’L é un assegno, sior piovan».
«E’i italiani?» chiese guardando e riguardando l’assegno. Era furbo lui, andava torno, apposta.
«Se ’i é italiani? Certo che ’i é italiani, piovan: el va in banca e là ‘i j’i cambia co schei italiani…»
«E inveze che vae mi in banca, che mi no ’i me conosse gnanca, no te pol ’ndar ti e te me porta qua soldi italiani?»
Al compratore toccò di andare in bici in banca a San Donà. E quando quello se ne fu andato «Nando, sèra i cancèi, che no vae fora i cavai» aveva commentato don Natale.
[dai ricordi di Marcello Fornasier, figlio di Nando]

Eh sì, era un commerciante nato, don Natale. Alcuni ripensarono alla storia che aveva raccontato Nini Danét, al tempo che andava lui ad accompagnare don Natale a San Donà col cavallo:

Don Natale teneva sempre in casa uno o due maiali, insomma, aveva sempre bestie; insomma capitò che uno dei maiali aveva rotto il portello dello stavolo e andando di qua e di là era finito anche in caneva, dove don Natale teneva un caretel de ojo – eh, perché era un contrabbandiere di prima categoria, don Natale, commerciava – Il maiale aveva fatto un disastro e quando venimmo a casa, don Natale staccò el saraban dal cavallo, el serét, e lo mise soto el tedon, al cuert, quindi menò il cavallo in stalla; lo portava sempre lui in stalla, perché solo lui sapeva metterlo come si doveva, insomma come voleva lui, si portò nel sotoportego, di qui nella stalla, e dalla stalla nella cantina buona dove teneva il vino che poi anche vendeva e dove in quel periodo teneva anche questo caretel de oio, e vide quello che aveva fatto il porzel, che aveva rovesciato el caretel de oio, e allora non fu capace di trattenersi, e giù con una serie di improperi: «E porco qua…, porco là… coparlo subito, dio…»
[dai ricordi di Toni Dariol che ricevette la testimonianza da Nini]

Era improbabile che le avesse pronunciate quelle bestemmie, plausibilmente inserite nel racconto dal narratore; ma per qualcuno ci potevano stare con l’energia e l’indomita capacità di lottare e di reagire del paroco, cui non faceva difetto la vis oratoria e, fino a pochi anni prima, nemmeno un’incredibile forza fisica: da solo non riusciva forse a spingere una bote granda lungo le parancole fin sopra il carro o a ribaltare un carico di legna alzando da solo il carro da un lato?

Noi tagliavamo le gaggie in grava e le portavamo qui, in canonica, un poche se ne facevano pali per le viti che poi usavamo nelle chiesura in grava, gli altri li lasciavamo qua che poi veniva qualcuno a farne legna per il fogher. Una volta che il carro era arrivato a destinazione in canonica, i tre o quattro che dovevano dargli una mano a scaricarlo si mettevano tutti da una parte del carro, con la spalla sotto il carro e lo alzavano fino a rovesciare tutto il carico. Un giorno i tre che dovevano dargli una mano a rovesciare il carro si misero d’accordo di far solo finta di alzare il carro e lasciarono a lui tutta la fatica; e lui ugualmente, con più fatica del solito ma con uguale risultato, alzò di fatto il carro da solo e ne rovesciò il contenuto. Aveva una forza… Sarà stato 1,75, una bella altezza.
[dai ricordi di Marcello Fornasier]

Una volta, sarà stato trent’anni prima, Piero “campaner” era finito nel fosso davanti alla chiesa col muss e col carét. Don Natale, uscito di chiesa o di canonica, l’aveva visto: «Cossa ghatu fato? Cossa ghatu fato?»
«…#…&…#…» si lamentava Piero.
«Beh daì, te juto mi, te juto mi». E, preso il carretto per una brenna e il musso per una spalla, don Natale aveva tirato su tutto, mus e carét.

La fede di don Natale: miracoli e benedizioni

Ma più che alla valentìa fisica del paroco, molti pensarono alla forza soprannaturale delle sue benedizioni. Chiunque in parrocchia aveva almeno un episodio da ricordare. La fama delle sue benedizioni aveva varcato i confini della parrocchia se era vero che fin da Meolo e da Fossalta, da San Donà e da Monastier veniva gente a richiederle.
Passando davanti al feretro del paroco, Toni Sgnaolin lo ricordò seduto a un bancone a pregare dopo la famosa prova; doveva aver pregato per ore, e “fatto penitenza, perché, si dice, chi fa prodigi poi deve fare tanta penitenza”. Quanti anni prima era successo? che i cavalieri, sistemati sotto el tedon perché non c’era posto dove metterli, la mattina dopo erano pieni di formiche. Il padre l’aveva chiamato, preoccupato: «Va fin dal piovan, Toni, e dighe…» e Toni era andato dal parroco in sacrestia, alla fine della messa: «Buongiorno, piovan… vén i cavalieri soto el tedon tuti pieni de formighe…», «Vaeà, vaeà…» Così aveva detto: «Vaeà, vaeà…» e poi si era ritirato nella navata a pregare. Poi Toni era tornato a casa e di formiche nel tedon non se n’era più vista una.
Qualcosa di simile era capitato ai Montagner, sull’Argine. Anche lì le formiche avevano invaso i cavalieri, e i sorci non facevano che caderci addosso; fu chiesta una benedizione al paroco che distruggesse questi e quelle; «Ma no, non se pòl coparle, l’é creature anca lore» aveva risposto don Natale, che destinò loro un altro luogo: la mattina dopo, i sorci sembravano aver recuperato l’equilibrio e tutte le formiche del mondo, sparite dai cavalieri di casa Montagner, s’erano radunate su di un salice all’estremità dei campi.
E qualcuno dei Fornasier ricordò la volta che Nano si era rivolto al parroco perché le galline della cesura del prete danneggiavano la sua uva. Don Natale l’aveva rimandato in pace, dicendogli che non sarebbe più successo, poi aveva benedetto le galline e da quel giorno le galline avevano lasciato in pace l’uva di Nano.
Anche la cognata di Nano aveva sperimentato la potenza di don Natale quando era andata da lui per fargli benedire una penna delle oche, che avevano l’abitudine di sparpagliarsi per la campagna, e la costringevano a lunghe e faticose rincorse. «Te vedarà che no ’e scampa pì, va tranquìa…» s’era sentita rispondere dal paroco, e da quel giorno le oche erano rimaste sempre in gruppo e sempre sotto casa, facendo un baccano del diavolo che la povera donna era stata tentata più volte di tornare da don Natale a far benedire un’altra penna per ottenere il miracolo inverso.
Una donna ripensò a quando il suo bambino da piccolo mangiava terra e lei aveva chiesto una benedizione a don Natale e il bambino non aveva più mangiato la terra .
Qualcosa di simile era capitato anche alla Giannina Longato, doveva essere all’inizio della guerra, che mangiava le croste dal muro «le manca il calcio!» spiegavano le amiche alla madre. La calce forse. Le malte cadevano a pezzi allora in tutte le case. La madre era preoccupata e decise di andare da don Natale «Ma va, te ghe dà caso a ste robe qua.. ’I é putèi…» «Ma ’a magna ’e croste del muro!» «Va’ casa, daghe qualche panet, te vedarà che no ’a magnarà pì ’e croste» La madre tornò a casa, cercò di seguire il consiglio, e da quel giorno la Giannina le croste non le mangiò più .
L’Assunta De Zotti ricordò quando era andata a lamentarsi con don Nadal che i puissatti [=le donnole], nascosti nei pagliai, maledetti!, andavano a mangiarle i pitussi. «Va in pase, Sunta, che doman el puissat no ’l t’i porta pì via» le aveva risposto il paroco, e difatti così era andata. Perciò quando il parroco passava di là e chiedeva di potersi prendere una zucca dall’orto, ché andava matto per la zucca, loro erano contenti di dargliela.
I fratelli Barbieri di via Casera ricordarono la volta che Piero “campaner” era passato a prendere il quartese, e uno di loro gli aveva dato solo un cesto di pannocchie; «Dagliene anche un altro po’» aveva suggerito uno dei fratelli «Eeee… basta, basta, s’ha da viva anca n’altri!» l’aveva bloccato il primo. Giunto in canonica, il campaner doveva aver raccontato l’episodio a don Natale perché due giorni dopo i fratelli, passando per il graner per andare in camera, videro un’invasione di sorci sopra le pannocchie, che correvano dentro e fuori per il grano. Erano corsi da don Natale – sapevano la potenza del paroco – e don Natale aveva risposto loro: «I magna quel che dovessi darme a mi…». «El me scuse… mi ghe ne porte ancora… i magna el suo ma anca el nostro!» precisò uno dei fratelli. «Beh, tiréghene fora do zesti par lori e vedaré che co ’i ha magnà i do zesti no ’i ne magnarà più». I fratelli fecero come aveva detto Don Natale, misero in un angolo due ceste di pannocchie e la mattina seguente videro che i sorci erano spariti e solo dei due cesti messi da parte rimanevano i bòtoi [=tutoli].
Nane Moro riferisce lo stesso episodio in maniera leggermente differente: il Barbieri s’era dimostrato avaro consegnando due piccoli sacchi di pannocchie a Giovanni e alla Marcella (i perpetui) che erano passati per il paese a raccogliere il quartese; «Sono tutte, queste?» «Anca massa» aveva osato rispondere. Quando don Natale, controllando ciò che era stato raccolto, aveva visto il mucchietto più piccolo degli altri e chiesto di chi era, «Di Barbieri – avevano risposto i perpetui – e ’i à dito che ’i é anca massa…» «Ah.. ’i xe massa… ah, i xe massa… Adesso vedaremo chi che ’ndarà ciòrsei su»; e i topi avevano cominciato a divorargli il grano. La signora Barbieri, disperata, era tornata da don Natale per richiedere una benedizione, con un’altra gallina: «Piovan, ven i pantegani che ne magna el soturco…», «Se vede che qualcun vanzéa calcossa, ’i é ndati ciorseo… Va con Dio, te vedarà che no ’i lo magna pì». Nane Moro sembra sicuro perché la donna è sua cognata.
La stessa cognata, forse era subito dopo la guerra o forse nel ’44, era andata preoccupata con una gallina da don Natale perché i maialini appena nati non mangiavano «Oto giorni che ’i é nati e no ’i magna», «Ah chee robe là… Ben ben…» «Piovan, g’ho portà na gaina… ne dae na benedizion» «Sì sì cara, ghe meto tuta ’a me voeontà… Vaeà, vaeà… I varà fame… i varà fame». Quando la donna tornò a casa i maialini divoravano tutto quello che gli si buttava dentro il lebo.
Episodio simile e contrario era capitato in casa Mutton: Bepi aveva sette od otto anni, e l’uja che aveva appena partorito i porzeéti, invece di allattarli tentava di mangiarseli e Bepi col padre dovette tenerla distante con la sedia. La mattina dopo il padre andò da don Natale a raccontargli il fatto. Don Natale disse «Va casa che é tuto a posto»; e così fu.
Marco Tegon, che abitava lungo la strada per andare alle Millepertiche, venne disperato a lamentarsi da don Nadal perché qualcuno gli aveva rubato i soldi che aveva in casa e che avrebbero dovuto bastargli per tutto l’anno. «Ma va… vaeà Marco, va casa, varda soto chea piera soto el tedon e là te trovarà i soldi». Marco, tornato a casa, sotto la pietra che gli aveva descritto don Natale li aveva effettivamente trovati. Tale era stato il suo sconcerto… In seguito era venuto a sapere che i soldi glieli aveva portati via il nipote, che poi, chiamatosi pentito, aveva fatto sapere a don Natale del suo desiderio di restituzione o era stato convinto dal prete a riparare al torto commesso. Ma la meraviglia provata al ritrovamento dei soldi Marco non l’aveva più dimenticata.
E a Millepertiche tanti ritirarono fuori l’ormai antico miracolo della giacchetta di fustagno, di valore, che uno di loro s’era comprato e aveva indossato anche per andare a lavorare nei campi dei vicini di casa. Per lavorare s’era ovviamente tolto la giacchetta e l’aveva appesa a una canna più robusta delle altre. Finito di lavorare era andato a riprenderla ma non l’aveva più trovata, la sua giacchetta nuova! Mezzo disperato s’era deciso ad andare da don Natale, che aveva fama di trovarobe; dopo la messa aveva bussato alla porta della sacrestia e gli aveva raccontato il suo dramma; don Natale l’aveva rassicurato: «La trovémo, la trovémo, preghémo, te vedarà che la trovemo. Doman torna tra ’e cane dove te ’a gà moeada e te vedarà che te ’a ritrova…» L’indomani l’uomo era tornato dove l’aveva lasciata e l’aveva ritrovata, esattamente come l’aveva messa lui; non solo, ma il fazzoletto usato che aveva lasciato in una delle tasche della giacca risultava lavato e stirato. Certo la faccenda del fazzoletto stirato aveva dell’incredibile, ma quando si comincia a credere ai miracoli cosa vuoi che sia un fazzoletto stirato rispetto al resto.
Era la grande fede di don Natale la causa di tutto.
Molte volte, d’estate, all’approssimarsi d’un cielo buio e minaccioso, don Natale era uscito sul sagrato della chiesa e levate le mani al cielo aveva urlato a Dio: «No, Signor, qua, no mandar tempesta qua: é tuta bona zente qua!» e la tempesta girava al largo. Oppure accadeva il contrario: «Tuta qua, tuta qua…» e la grandine cadeva attorno alla canonica, dove non poteva far danni, risparmiando le colture dei contadini.
La potenza di don Natale era riconosciuta dagli altri preti, persino dal prete di Stretti, suo amico, quel don Giovanni Bertola che pure di suo godeva fama di operare miracoli ed esorcismi.
Quando la Maria Lava stava male era don Natale che l’aveva guarita : successe quando la famiglia abitava ancora a San Donà: la madre s’era decisa a portarla al prete di Stretti. «Io non posso far nulla, – aveva risposto quello – dovete andare dal parroco di Musile, don Tisato, oppure da quello di Croce». Le due donne, tornando da Stretti, s’erano fermate prima da don Tisato e poi da don Natale. A quale dei due fosse da attribuire il merito in seguito non ebbero dubbi; la sera la Maria era seduta a tavola e stava bene .
Anche un’altra bambina, che aveva bevuto la varechina, fu salvata da don Natale. La varechina si teneva nella bottiglia del vino colla quale si era andati ad acquistarla e la bambina aveva attaccato la bocca alla bottiglia e aveva urlato e i parenti andarono in bicicletta da don Natale, il quale consigliò loro di metterla «subito soto ’e tete de ’a vaca», e i parenti della bambina andarono da Mariuzzo, l’unico nei dintorni che aveva le vacche, attaccarono la bambina alle tette della vacca e la bambina si salvò. «Una vacca ha salvato la toseta!» dissero tutti; e poi, restituendo i meriti a chi li deteneva, dissero meglio: «El prete ha salvato la toseta!» Don Natale, anche se poteva apparire talvolta un zavatón, era uno che sapeva, era istruito, sapeva che il latte era un controveleno .

I “poteri” di don Natale

Ma c’era un episodio che più di ogni altro era rimasto impresso nella memoria collettiva dei crocesi, anche perché, a quanto pare si era verificato più volte, a meno che non fosse lo stesso episodio moltiplicatosi per affabulazione generale.
Antonio “Nani” Conte era salito con un amico sopra uno dei peri del brolo per rubare qualche frutto. Mentre era sopra l’albero, dalla canonica erano usciti don Natale e Piero “campanèr”, il nonzolo, diretti alla messa; Piero, accortosi della presenza di un ragazzo sull’albero, ne aveva fatto cenno a don Natale. «’Àsseo là» aveva risposto il parroco e i due avevano proseguito per la chiesa. Al loro ritorno dalla messa, Nani era ancora lì, aggrappato ai rami, incapace di scendere dall’albero: per tutto il tempo della funzione aveva tentato di farlo senza riuscirci, perché una misteriosa sensazione di impotenza l’aveva preso, lui che non aveva paura di nulla ed era come un gatto su per gli alberi. Quando aveva visto giungere il parroco, pur sapendo che sarebbe giunto il momento della scoperta e del castigo, era quasi sollevato perché almeno sarebbe finito il suo supplizio. Don Natale si avvicinò all’albero e chiese: «Cossa fatu là?» «Mi… mi…» il ragazzo non riusciva a parlare e non riusciva a scendere. Intanto era accorsa diversa gente appena uscita di chiesa e tutti ridevano a vedere il ragazzo in difficoltà, preda del sortilegio del prete. Finalmente don Natale, con gesto perentorio, gli aveva intimato: «Vien basso!» e il ragazzo era quasi precipitato al suolo.
Anche a Jijo Bergamo era capitata una cosa simile, se non identica . Una sera Don Natal lo vide sull’albero, andò a cena, poi prese il breviario e tornò fuori, e si portò sotto l’albero da dove Jijo Bergamo non riusciva più a scendere: «Cossa fatu là?» «Piovan, ghe domande scusa…vee voja de magnar un pomo». «Vien zo, vien zo, ma basta far chee robe là…»
Nei ricordi di altri l’episodio era accaduto una domenica mattina, prima che “andasse su” la messa delle sei, e don Natale avrebbe detto: «A roba de che altri se ’a ’assa là…» E quando, alla fine della messa il parroco era ripassato di là, s’era portato sotto l’albero e l’aveva quasi deriso «Seu ancora là?».
E mettendo insieme tutti i racconti potrebbe anche starci che l’amico di Nani Conte era proprio Jijo Bergamo. Forse erano ragazzini suggestionabili; può darsi che fosse stata la paura della minaccia del castigo (dato che era stato scoperto!) a non farlo più scendere.
Chi era invece il ragazzo che aveva avuto il coraggio, alludendo al parroco vestito di nero e di passaggio dalle parti di casa sua, di esclamare a voce alta: «Ara là che passa el sac de carbon!»? Un fratello di Angelo “Bravo” doveva essere stato. Don Natale, che aveva udito il commento, non aveva reagito, aveva solo chiosato: «Ben ben, mi sac de carbon». Al ragazzo dopo un po’ gli era presa una diarrea che durò due giorni, due giorni sopra il pittale, finché la madre capì: «Ti te t’ha ciolt in urta col prete: cossa j’hatu dita?» Il ragazzo confessò e la donna andò dal prete a chieder scusa…. «Ah sì, ah sì, ben ben ben dighe che n’altra volta el tegne a lingua dentro i denti… Va casa che é tut a posto…».
E cosa s’era pensato “Jenio” [=Eugenio] Furlanét, padre di “Selmo” [Anselmo], che abitava nella casetta dopo Bruno Mutton, un giorno che era partito con la cavalla per andare al mercato di Treviso, di non levarsi il cappello mentre passava davanti a don Natale! Don Natale l’aveva richiamato: «Jenio, no cavarte el capèl davanti a mi, ma càvate el capèl davanti a quel che mi porte!» Eugenio, invece di accogliere il rimprovero e rimediare levandosi subito il cappello, stizzito aveva dato una scuriataa [=frustata] alla cavalla e accelerato; andato al mercato, fatto quel che doveva fare e tornato, per tutto il giorno non riuscì a urinare. La sera dovette andare a chiedere scusa a don Natale per poter tornare a pisciare in tutta tranquillità.
Di questo passo si arriverebbe a dire che Croce era un paese di fifoni e suggestionabili. Ma uno che aveva tanti episodi da raccontare perché glieli aveva raccontati suo padre, Piero “campaner”, sacrestano per parecchi anni prima di lasciargli il posto, era Zanardino Granzotto: più di una volta al padre era capitato di accompagnare, con biroccio e cavallo, don Natale a dir messa a Millepertiche, talvolta passando per la via Casera, altre volte per la via del Bosco e le Bellesine. E tra i mille episodi cui aveva assistito ve n’era uno accaduto “là dae parti de Brincoet”, subito dopo la via Morosina oltrepassata la Triestina: don Natale aveva improvvisamente alzato le braccia e aveva cominciato a gridare: «Onde vatu? Onde vatu? Va casa… Va casa… No sta ’ndar far maeani…» Da Brincoét c’erano gli spiriti maligni e don Natale li vedeva e li combatteva.
Dopo ogni esorcismo, dopo ogni ‘potenza’ era come sfibrato, e doveva mettersi a pregare, la preghiera era l’olio per la fiamma della sua “potenza” .

Ma la stragrande maggioranza dei parrocchiani ricordò soprattutto il parroco che aveva sempre una parola buona per tutti, che non mancava mai di assistere i suoi parrocchiani malati e di dire tutte le sere il rosario coi moribondi; il parroco che aveva in tasca sempre un’elemosina per i poveri, che i giovedì aveva celebrato per anni “la giornata del povero” facendo cucinare dalle nipoti qualcosa per loro; a quelli che nemmeno osavano entrare in canonica e bussavano alla finestra della cucina dava qualche spicciolo che faceva scivolare in un’apposita fessura dell’intelaiatura; anche durante la messa era sempre il primo a mettere la sua offerta nella busta delle elemosine.
E i bambini e le bambine ricordarono le volte che, diretti a scuola, il parroco dalla faccia burbera li aveva presi in braccio e fatto loro qualche coccola, prima di dar loro l’ultimo consiglio: «Su corri, e fa il bravo a scuola, e studia».
Molti dei contadini più poveri ricordarono che spesso negli inverni, quando non era possibile lavorare per mesi perché la terra era ghiacciata, don Natale non aveva mancato di far avere loro, sempre, un sacchetto di soturco. E per costruire la chiesa di Millepertiche aveva dato parecchi soldi dei suoi; anche per comprare il terreno, e poi non ne era stato rimborsato.
Rico Lava e Angelo “Bravo” Longato ricordarono tutte le volte che essendogli capitato di pescare qualcosa, non sapendo a chi venderlo andavano da don Natale, tra i pochi che poteva pagare. Don Natale s’informava sul prezzo e immancabilmente concludeva: «No, no, massa schei…», «Piovan, ’vemo da magnar anca noaltri poreti…» Il paroco allora si lasciava convincere all’acquisto, metteva la mano nella tasca dei pantaloni, che quasi gli arriva al ginocchio, e ne tirava fuori un po’ di moneta: per non farsi “fregare” dai due pescatori aveva l’abitudine di abbassare di dieci franchi il prezzo stabilito dai due pescatori. I quali, dopo qualche volta, capita l’antifona, gli facevano la canagliata di maggiorare il prezzo di dieci soldi, così che alla fine ottenevano quello che desideravano.

Il funerale

Il giorno successivo, sabato, partecipò una marea di gente al funerale, era piena la navata e c’erano centinaia di persone fuori sul piazzale della chiesa; sull’altare, attorno al vescovo Mantiero, c’erano monsignor Saretta, i preti di Musile e di Fossalta, don Ferruccio e tutti i preti dei dintorni.
Monsignor Mantiero commemorò a lungo la figura di don Natale, “personaggio di indubbia caratura e di fortissimo carattere, che nei suoi lunghissimi 58 anni da parroco aveva attraversato una guerra e le sue distruzioni, la ricostruzione della parrocchia e il Fascismo, e poi un’altra guerra, la nascita della Repubblica Italiana…” La folla, pigiata ovunque nella navata e nelle due sacrestie, sembrava un unico organismo vivo e commosso. Tutti commentavano la bontà di don Natale e la pena che faceva negli ultimi anni perché era diventato sempre più povero. È abitudine ripetere che i preti sono pieni di soldi e invece c’era stato un periodo in cui era toccato di portargli da mangiare. “Co tutti chi schei!”… e non ne aveva mai. Prima per colpa dei nipoti, che erano loro a portarglieli via; ma poi erano andati via i nipoti, e allora per colpa dei frati che giungevano a predicare e che gli mangiavano fuori tutto. La verità è che di soldi don Natale ne guadagnava sempre meno, se chiedeva soldi sembrava che pensasse solo ai soldi e se non li chiedeva, nessuno glieli dava; lui non voleva chiederli; c’era chi non l’aveva mai udito chiedere nulla.
Risuonava nelle orecchie dei fedeli la sua voce: “Ricordéve anca del prete… anca del paroco, l’ha bisogno de viva anca lu”. Adesso era morto.
Alla fine della messa la folla impiegò un pezzo a defluire dalla chiesa e a incolonnarsi in processione dietro la carrozza funebre diretta al cimitero, mentre il vescovo, per la stradina del brollo, scappava diretto in canonica, perché anche lui era vecchio e aveva bisogno di andare in bagno e i monellacci ridevano perché avevano capito che stava per farsela addosso.
Il torpedone dei fedeli riempì il cimitero e si strinse per l’ultima volta al paroco che stava per essere seppellito nella tomba che qualche anno prima egli aveva fatto costruire per sé e la sua famiglia e nella quale erano sepolti i genitori e la sorella Anna.
La lastra tombale giaceva in piedi appoggiata alla tomba vicina; don Ferruccio pronunciò le preghiere di rito, benedisse il feretro e tutti si segnarono col segno della croce. Quindi sei uomini dei più robusti sollevarono con le corde la cassa per calarla all’interno della tomba; ma un mormorio si diffuse immediatamente tra la folla: la cassa non passava per l’imboccatura della tomba. Per far stare un corpo della stazza di don Natale in una cassa, Aldo l’aveva comprata leggermente più lunga; ed ora la cassa per qualche centimetro non entrava nella tomba; montò l’imbarazzo sulla facce dei sei uomini e dei parenti. Finché uno di loro prese l’irriverente decisione di asportare con un martello alcuni pezzi della cornice decorativa che girava tutt’attorno alla bara. Consumato lo sfregio, la bara passò. Quindi la tomba fu richiusa.


“Don Natale Simionato
1866-1955
per 58 anni parroco di Croce”

Per una trattazione completa della storia di Croce dal 1897 al 1955 vedi
CARLO DARIOL - Storia di Croce Vol. II - DON NADAL, EL PAROCO DE CROSE
Edizioni del Cubo, 2016