La terza opera nata dal sodalizio è Succulente (2007): questa volta in copertina Luisa
perde definitivamente il cognome Carnielli per mantenere solo quello proprio (e del fratello).
Lisbona, Portogallo. Anzi: Lisboa, Portugal. Britto Mendes (si noti l’assonanza con Fulvio Ervas, ndC) è il malinconico vicedirettore della Estufa Fria,
uno splendido ma vetusto giardino botanico perennemente in ristrutturazione. A tormentare Mendes,
oltre alla consueta aritmia cardiaca, da qualche giorno c’è anche un senso di colpa grosso come una casa,
per aver mandato la riluttante signora Luzia (=Luisa) a dare una rassettata alla parte alta del padiglione tropicale,
proprio là dove la donna è scivolata, ha battuto la testa ed è morta. (Interpretazione psicanalitica: Fulvio
ha mandato avanti col primo libro la sorella Luisa, che lo ha trascinato alla popolarità:
adesso egli può anche letterariamente "ucciderla", e così farà dal successivo romanzo.)
Sulla disgrazia indaga il supponente e fastidioso ispettore Coelho, le cui indagini si intrecciano
a un lungo excursus sulle disgrazie di Mendes: quindici anni prima ha perso il padre e poi è stato investito
da un’auto e ha passato settimane in coma, durante le quali ha avuto la misteriosa visione di
una sterminata foresta di eucalipti che lui attraversava a piedi, lentamente. Per non parlare del fatto
che da un mese l’amata compagna Amalia l’ha lasciato ed è partita per chissà dove. Britto non lo sa, ma quel
chissà dove è la laguna di Aveiro, una suggestiva località costiera dove si sta costruendo un parco naturale,
lavoro nel quale Amalia si è gettata con entusiasmo. Ad Aveiro vivono anche Estrela e suo marito,
il comandante Branco, un militare burbero eroe della rivoluzione portoghese e fanatico del pollo arrosto. Estrela
sta attraversando un periodo di crisi personale: è scontenta della sua vita, non è più sicura dei suoi sentimenti
e da quando ha visto come i volatili vengono uccisi, non ha più nemmeno voglia di cucinare il pollo
al marito. Mentre Amalia ed Estrela scoprono un rapporto di amicizia destinato a donar loro emozioni
e dolori, a Fatima, nel santuario frequentato ogni giorno da migliaia di pellegrini e trasformato in una sorta
di industria della fede e della sofferenza, si vive un inedito dramma. La disperata signora Luzia infatti
si rivolge al monco factotum del santuario, Humberto Baleira, che ha fama di uomo dei miracoli, con una richiesta
terribile e mai sentita prima d’ora: far morire suo figlio Manuelito, malato senza possibilità di cura.
Intervista a Luisa e Fulvio Ervas dopo l’uscita di SUCCULENTE
Articolo di David Frati
Luisa e Fulvio Ervas... ovvero la piccola cooperativa di scrittura di due fratelli di Musile di Piave,
piccolo centro agricolo tra Venezia e Treviso. Lui insegna Scienze Naturali in una scuola superiore
in provincia di Treviso e ama smodatamente qualsiasi animale che non sia l’uomo. Lei ha fatto per tanti
anni l’operaia in un maglificio e ora fa la casalinga con licenza di scrivere. Persone vere, semplici,
senza sovrastrutture.
Il tema del viaggio è centrale in Succulente, e non tanto o non solo per gli spostamenti dei protagonisti,
ma per l’esperienza pre-morte di Britto Mendes, che è un po’ il simbolo, il ‘manifesto’ di questo approccio...
Fulvio: “Sì, e la cosa è vera anche e soprattutto per un altro motivo, più semplice se vuoi: tutto
nasce da un mio viaggio con amici in Portogallo, un viaggio tanto desiderato e organizzato a lungo e con cura,
che stava saltando per la mia sbadataggine. Avevo acquistato una cucina da campo dotata di tutti i comfort,
che andava sistemata tutta compatta in un piccolo rimorchio da agganciare all’automobile. Eravamo in viaggio
da qualche ora, quando un camion ha iniziato a lampeggiarmi nello specchietto retrovisore. Una, due, tre
volte. Ho pensato: il solito camionista rompicoglioni e incivile. Invece mi voleva far capire
che la cucinetta si era sganciata dal supporto e strusciava sull’asfalto facendo una scia di scintille:
ancora qualche metro e addio cucina da campo! Insomma in Succulente c’è il viaggio come spostamento,
ma anche come esperienza umana. E come fobia di stare fermi".
I personaggi femminili hanno un fascino particolare per voi?
Luisa: “In Succulente parliamo del dolore delle donne. Una madre, una moglie, un’amante. Figure diverse,
diversissimi ruoli, ma tutte convivono con un dolore: perdere un amore, o liberarlo, o lasciarlo dietro di sé con rimpianto. Sono figure femminili forti perché così è la donna. Possono cambiare gli ambienti, le società, le storie, ma le donne saranno sempre così".
Si parla di citazioni, ammiccamenti, allusioni in alcuni personaggi di Succulente. Del resto
se una donna portoghese si chiama Amalia viene automatico pensare al fado, che volete farci?
Fulvio: “Sì, è comprensibile. Ma in realtà Amalia non fa rierimento ad Amalia Rodrigues, la regina del fado. Solo
il personaggio dell’ispettore che indaga è ispirato a Paulo Coelho, ma è un po’ una stilettata perché è uno
scrittore che non amiamo affatto. Invece ne La lotteria abbiamo inserito volutamente nomi di personaggi
della scienza e della storia, un giochino anche per divertirci a vedere se qualcuno li riconosceva. Come
potrebbero riconoscersi varie persone di Treviso che magari abbiamo incontrato in un bar, per la strada e poi
utilizzato come modello per personaggi dei nostri romanzi. Non c’è fantasia che superi la semplice descrizione delle persone che si incontrano per caso, con i loro tic e le loro espressioni assolutamente uniche".
Un altro tema forte di Succulente è quello dell’eutanasia. Come vi ponete nel
dibattito infinito su questo argomento?
Luisa: “Inizialmente non era voluto, è venuto un po’ da solo, tanto che ce ne siamo
accorti dopo aver scritto il romanzo. Quanto al dibattito italiano, la questione della dignità
umana anche nella morte va posta con forza. Quando si scende sotto certi livelli sul piano
etico insistere con una vita che non è più vita non ha alcun senso”.
Che senso avete voluto dare alla scelta di non tradurre i nomi e molti termini
portoghesi utilizzati nel romanzo? Insomma, perché Lisboa e non Lisbona, ad esempio?
Fulvio: “C’è dietro ovviamente un omaggio alla meravigliosa musicalità della lingua
portoghese, e anche una questione di simpatia. Voglio dire, si riceve tanto da una terra
del genere, e si sente il bisogno di un gesto gentile nei suoi confronti, per quanto piccolo,
come per ringraziamento”.
Il fatto che il romanzo possa essere percepito come un noir pur non essendolo è un equivoco
che vi disturba, vi lusinga o vi lascia indifferenti?
Luisa: “Né l’uno né l’altro, succede e basta. Succulente non è un noir, e su
questo non ci piove, malgrado la storia inizi con un cadavere. Ma la compagnia dei
noir non è che ci disturbi, anzi è capitato pure di presentare il libro nell’ambito
di festival dedicati al giallo e ci siamo trovati benissimo”.
Ho letto da qualche parte che delle piante grasse - le succulente del titolo - vi piace
la capacità di resistere, di adattarsi all’ambiente. Con la vita che avete avuto, vi sentite
un po’ succulente anche voi due?
Fulvio: “Il titolo in realtà è stato scelto per due motivi. Il primo è che a Lisbona c’è molto verde,
serre davvero stupende. Se si capita durante la fioritura delle piante grasse si assiste a uno spettacolo magnifico,
una vera esperienza sensoriale. Del resto storicamente il Portogallo era la porta verso l’America Latina,
anche naturalisticamente. Il secondo motivo è che le succulente, cioè le piante grasse, hanno le unghie,
vivono in territori complessi, hanno una resistenza speciale". Luisa: "Quanto alla nostra famiglia, abbiamo
origini diciamo così ’variegate’: Romania, Bulgaria, Montenegro. Una famiglia poverissima e ricca di personaggi
stranissimi, che è dovuta tornare esule in Italia e ha sostanzialmente abbandonato nostra madre giovanissima
da certi cugini, anche questi poverissimi e molto, molto strani. C’erano parenti dei quali si diceva avessero
poteri paranormali, una zia con gli occhi gialli con fama di strega, un tipo che si rifugiava sugli alberi
e una figlia ammalata di poliomielite che amava raccontare strane storie. Nelle giornate di pioggia o di malattia
sentivamo il rumore di lei con le sue protesi per camminare che saliva faticosamente le scale
per venire da noi tre fratelli a raccontare le sue storie macabre e scollacciate,
che diceva tratte da libri proibiti dalla Chiesa...”
Fulvio: “Chiunque sarebbe diventato uno scrittore con un’infanzia così! La cosa più sconcertante
era che la sua famiglia ha abbandonato nostra madre con figli piccoli a un destino difficile,
di fame e di stenti, così, senza più cercarla. Allucinante davvero”.
Due su tre vostri libri sono ambientati in paesi lontani, molto distanti non solo geograficamente
dal ‘vostro’ nordest. C’è un motivo preciso per questa scelta?
Fulvio: “Il nordest è un non-luogo, un’etichetta sulla quale ironizziamo volentieri. Un luogo
geograficamente bellissimo raso al suolo e ricoperto di capannoni industriali. E allora se vivi
da circa 50 anni lì e ti ricordi com’era tanto tempo fa non ti rimane che sognare isole lontane,
che sognare il Portogallo”.
Luisa: “Oppure i paesi lontani te li inventi direttamente, come abbiamo fatto per La lotteria,
che è stato ambientato in un arcipelago di isole inventato appositamente per avere uno sfondo
cupo e spettrale. Abbiamo preso le isole croate, che conosciamo molto bene, e le abbiamo fatte
navigare fino all’estremo nord...”
Perché nei vostri romanzi ci scappa sempre il morto?
Fulvio: “In tutti i libri c’è una fascinazione per la morte, e il sommo disgusto per
chi uccide. La morte allora diventa un pretesto per conoscere le vittime, per esplorare le connessioni
tra i personaggi. Che sono la chiave dell’umanità. Mi piacerebbe che i membri della stessa
specie - gli uomini, per esempio - si guardassero tra loro con simpatia. Io capisco che a Marghera
uno sia arrabbiato, è circondato da fabbriche, inquinamento e rifiuti. Ma se vivi a Treviso che
è una città bellissima, pulita, ricchissima allora cosa sei incazzato a fare, perché te la devi
andare a prendere cogli immigrati e coi rom? Non si capisce”.
Dopo tre libri, qual è il personaggio al quale siete più affezionati?
Fulvio: “Direi Britto Mendes di Succulente, ma anche il vecchio direttore della serra. Lì c’è anche il tema della morte, di chi ci accompagna nel passaggio. Quando lascerò questo pianeta mi piacerebbe avere vicino un vecchio amico".
Luisa: “Il giovane Kosh ne La Lotteria, Jolanda ne Le commesse di Treviso. Poi io sono
una madre e in Succulente ovviamente mi rivedo molto nel personaggio di Luzia, che deve prendere
una decisione sul figlio che la distruggerà ma le darà pace. Anche se non esiste dolore più grande
della perdita di un figlio”.
Che procedura seguite per scrivere in due? Uno si immagina che essendo fratello
e sorella vi accapigliate, minimo...
Fulvio: “Il nucleo del lavoro è il racconto della vicenda. Poi tranne rare eccezioni
ci affidiamo a una scrittura doppia, cioè ognuno di noi scrive tutte le scene e poi ci
confrontiamo e teniamo le cose che funzionano meglio. Certo, si soffre a buttare via le proprie cose,
ma è un esercizio utilissimo”.
|
Follia docente (2009),
ancor più smaccatamente autobiografico,
è ispirato alla sua esperienza da professore di scienze naturali.
Articolo di Giovanni Pannacci
Elia è laureato in Scienze agrarie a indirizzo zootecnico e si sta interrogando su quale possa essere il suo imminente futuro lavorativo. Purtroppo non riesce ad andare oltre queste bizzarre quanto interessanti possibilità: calcolare il baricentro delle uova da panettone, progettare un reggiseno per mucche da latte o appiccicare coccinelle essiccate sulla buccia delle mele trentine. Fortunatamente (?) un giovane laureato in Lettere, incontrato in un pub fumoso, lo salva da questi confusi scenari e gli propone di entrare nel fantastico mondo della scuola. L’iter è quello classico: si inizia come supplenti precari, poi si fa il concorso e, se si è fortunati, si entra di ruolo. Elia comincia così la sua carriera, con lo stupore un po’ ansioso di chi si avventura in un mondo sconosciuto. Contrariamente a quanto accade alla stragrande maggioranza dei precari, per lui c’è quasi subito un concorso di abilitazione disponibile che supera immediatamente e – altrettanto immediatamente – si ritrova ad essere un insegnante di ruolo. “La spada usata dai funzionari del provveditorato per nominarmi era di latta e cartone, ma al momento non ci feci caso”. La sede scolastica che gli viene assegnata è a Venezia, dove, guarda caso, Elia ha due vecchie zie, ex insegnanti in pensione, che gestiscono, ri-guarda caso, una pensione per docenti, che si chiama, ohibò, Collegio Docenti. Carlotta e Brigitta, “il terrore di dislessici, disgrafici, disfasici, discalculici, iperlessici e disprassici” si prendono cura del nipote novizio, dispensando consigli e ansiolitici. I primi giorni di scuola, però, sono per Elia molto difficili: capire regole e accettare abitudini consolidate non è così facile. Tutto gli appare un po’ surreale e assurdo. Sarà per questa ragione che viene irretito con una certa facilità da un precario sovversivo, un informatico che introduce Elia in una organizzazione segreta denominata “Brigata Robin Williams” che ha come scopo quello di realizzare atti sovversivi all’interno della scuola…
Un po’ Kafka e un po’ Paperino, il protagonista di Follia docente si muove in un mondo che forse
nell’intenzione dell’autore voleva essere surreale e ironico ma che invece appare al massimo
farsesco. Nonostante la scrittura sciolta e spiritosa, la narrazione non si mette mai in moto
e rimane al servizio di un divertissement che però non riesce a coinvolgere il lettore. I personaggi
sono più da cartone animato che da romanzo, per ognuno di essi si è attinto agli stereotipi
più lisi. Se si voleva strizzare l’occhio al post-modernismo mescolando alto e basso, cinema
e fumetto, forse si sarebbero dovuti cercare dei riferimenti meno abusati e più originali
(“Ancora me stai a Robin Williams!” Urlerebbe sdegnato il grande regista Rocco Smiterson). Lo scopo
del libro forse voleva essere quello di lanciare, in maniera iperbolica e vivace, uno sguardo
critico sulla scuola pubblica, in realtà non riesce a essere né un pamphlet di denuncia, né un
trascinante romanzo di avventure. Dopo i libri sulla scuola di Domenico Starnone, Paola Mastrocola e
Daniel Pennac, davvero non si sentiva l’esigenza di un’altra storia “ironica e delirante” sulla
pubblica istruzione.
|
Ma il grande successo arriva nel 2012 con
Se ti abbraccio non aver paura che racconta l’avventuroso
viaggio di Franco e Andrea Antonello, padre e figlio affetto da autismo.
È direttamente Franco Antonello, padre dell’autistico Andrea, che commissiona il libro a Fulvio.
Articolo di Carla Colledan
Franco e Andrea: un padre e un figlio, due mondi che si sfiorano e non si sa con certezza
se si incontrino. È iniziato con una diagnosi che non lascia scampo, questo viaggio: autismo. Andrea fino ai due anni è un bambino normale, che gioca, va a cavallo col nonno, fa le cose che fanno i bambini. Improvvisamente nel giro di pochi giorni comincia a diventare strano. Lo sguardo si fissa obliquo su qualcosa che non c’è, Andrea non risponde agli stimoli, ha dei comportamenti incoerenti. Ad un primo momento di sconcerto segue l’inizio dell’incubo. È il maggio del ’96 quando in un centro specializzato di Siena viene formulata la diagnosi. E da lì in poi la vita di Franco e Bianca diventa una sorta di montagna russa, un adattarsi alle follie di Andrea, e un tentativo continuo se non di guarirlo, di far sì almeno che la vita della famiglia sia il più normale possibile. L’ultimo tentativo in ordine di tempo che Franco decide di fare è un viaggio con suo figlio: chissà se questo lo porterà più vicino alla soluzione dello splendido enigma che è Andrea. Su e giù per l’America in moto, fermandosi sulle spiagge più belle, perché Andrea da sempre è un pesciolino che nell’acqua sembra rinascere. E poi giù verso sud, attraversando il canale di Panama fino in Nicaragua e in Brasile...
Una storia vera che ti prende e non ti lascia andare, dalla prima all’ultima pagina, perché Andrea è davvero speciale. Pur con tutte le limitazioni che l’autismo impone a lui e a chi gli vive accanto - e senza nasconderci i momenti in cui prendono il sopravvento i movimenti ossessivi, i silenzi, la maniacale ossessione con cui riposiziona qualunque oggetto non sia nell’ordine che la sua mente gli impone - Andrea è riuscito grazie al computer a comunicare con il mondo esterno, e quello che esce dalle sue risposte, dalle poche frasi che scrive ti lascia straziato, apre una serie infinita di domande che probabilmente resteranno senza risposta ma davvero fanno sì che a libro chiuso si vada in Rete a cercare notizie, a cercare di sapere come procede la sua vita. Vivere con Andrea è come stare in una stanza buia nella quale dei poltergeist dispettosi spostano gli oggetti, una fatica continua costante, infinita, una ricerca estenuante dell’ordine precedente. Ma in quei pochi momenti in cui si accende la luce, quegli attimi in cui Andrea c’è, ti accorgi di quanto meraviglioso possa essere. Andrea è uno di quegli autistici atipici che hanno bisogno del contatto: è indifferente a qualsiasi convenzione, non esistono estranei per lui, corre incontro alle persone, le abbraccia le bacia e tocca loro la pancia, dice che così riesce a sentirle e capire come stanno. Insomma un delizioso enigma. Nessuna omissione, Franco a volte fa fatica a sopportare le intemperanze di Andrea, la fatica qualche volta diventa insopportabile, come pure la paura. Ma l’amore e la tenacia di quest’uomo, che come lui stesso dice è fra i fortunati che hanno una certa sicurezza economica, ti fanno davvero venire voglia di fare qualcosa, non fosse altro capire di più. E si arriva alla fine di questo viaggio con la sensazione di avere portato a casa tanto.
Grazie al battage pubblicitario messo in campo da Franco Antonello, che partecipa anche come ospite (con o senza il figlio)
a una folta serie di trasmissioni televisive (del resto, quello dell'autismo è un tema sensibile e sentito), il libro diventa un successo editoriale e regala a Fulvio
la notorietà editoriale da sempre inseguita. Da quel momento si moltiplicano sulle riviste gli articoli o i trafiletti dedicati al nostro.
|