Testimoni del Novecento
(Testimonianza raccolta nel 2010)

Maria Teresa Lorenzon (1930-2013)

I Lorenzon erano falegnami da generazioni, vinsero diverse medaglie d’oro come falegnami. La loro è una storia vecchia di cinquecento anni.
Mio padre Lino nacque nel 1900, suo fratello Giovanni, detto “El moro”, nacque due o tre anni dopo, poi c’era un terzo fratello. Erano di Meolo, poi mio padre nel 1921 andò a vivere a Fossalta. Nel 1928 i due fratelli più vecchi comprarono la terra in piazza Croce, circa 2000 mq. Per primo venne a vivere a Croce mio zio Giovanni “El Moro” che si costruì la sua casa in piazza [la casa che poi sarebbe stata di Narciso Vendraminetto, dove adesso c’è quella di Gianni Cancellier. NdC.]
La Lina mia sorella nacque nel 1928 a Fossalta, nella casa del dottor Da Re e subito dopo i miei vennero ad abitare a Croce nella casa che poi sarebbe stata di Cesare Davanzo. Lì, nell’ordine, in quella casa lunga, c’era prima Buchetti che aveva laboratorio e abitazione [modulo doppio. NdC.], poi c’era la casa di mio papà Lino, e poi quella di Bertolini che faceva l’impiegato.
Il terzo fratello andò a vivere in Passarella.

Mi ricordo che mia sorella Lina (del 1928) fece la scuola in baracca a Croce, la I, la II e la III [eppur la scuola era pronta. NdC.]. Per la IV avrebbe dovuto andare a Fossalta, ma quell’anno fu attivata la scuola elementare [forse Maria Teresa intende la IV elementare] a Croce e così poté frequentare la scuola a Croce. Noi siamo sei fratelli: Romeo del 1926, la Lina del 1928, io del 1930, dopo c’è la Antonia del ’33 (che sposò un Zanchettin), Giorgio del ’40 e ultima la Luisa del ’44. [Ha dimenticato Guido, del 1938. Ndc.]
Qua sulla terra che comprarono c’era una baracca lunga lunga, vi abitavano quattro famiglie (Simonetto, Guerra, Leonardi,…) ognuno aveva la sua porta, c’erano cucina camera e cameretta per ogni famiglia. Avevano tanti bambini. Mio papà e mio zio comprarono la terra tutta, anche il pezzo dove oggi c’è la casa di Gianni Cancellier. E le famiglie delle baracche poterono farsi il vigneto e anche l’orto e vivevano con quello perché mio padre e mio zio concessero loro la terra senza far pagare loro affitti: erano poveri, andavano a lavorare presso le famiglie di contadini e non avevano soldi, non potevano pagare un affitto, l’affitto della terra su cui stava la loro baracca, sulla terra su cui si erano fatti il vigneto e l’orto, e non pagarono mai l’affitto a mio papà e a mio zio. Mio papà affitto non ne volle mai da nessuno, erano tutti più poveri di noi.
Di là della casa del Moro, Angelo Guseo aveva costruito la sua casa rossa, che fuori sembrava una villetta ma dentro era fatta male: c’era subito la cucina, e poi uno sgabuzzino scomodo (tant’è vero che Pivetta quando ha comprato ha buttato giù tutto); dopo che i Guseo andarono ad abitare a Musile (nel 1946) nella loro casetta rossa vennero ad abitare i Ceéti, la mamma aveva 5 bambini, la sera andava in cerca dei bambini capacissimi di aver preso sonno in giro. Mia mamma aveva piantato meloni in fondo al campo, e i tosatèi dei Barbieri, i Ceéti appunto, una volta glieli portarono via, i Ceéti erano tutti piccoli, avevano fame, e andavano a rubacchiare di qua e di là. Ma la madre era tranquilla, non si preoccupava della condotta dei figlioletti, aveva altri pensieri, poverina. Poi c’era la casa di Pegorer, nella quale poi venne ad abitare Rui.

Ricordo che quando andavamo a confessarci, don Natale ci chiamava «Angioletto bello»... «Visto che ti si stato anca bon...», metteva le mani nelle tasche dove non c’era niente, rumava un pezzo e tirava fuori un centesimo. Lo diceva anche ai grandi: «No sta bestemar, te guadagna quel istesso».

Mio padre Lino era un ottimo sensale, le famiglie di contadini lo cercavano quando qualche “colonna si staccava” e bisognava fare le divisioni: era buono, conciliante e allo stesso tempo sapeva farsi ascoltare. Anche con noi figli era così. Mi ricordo che un giorno, quand’ero bambina, mi portò a Treviso a comprare le scarpe e poi vedemmo una bellissima borsetta che a me piaceva e lui mi disse: «E non ci sta bene assieme?» Quanto tornammo a casa la mamma affettuosamente ci rimproverò e ci disse che noi due non ci avrebbe più mandati a fare spese insieme. Un giorno a tavola io e mio sorella ci bisticciavamo coi piedi sotto il tavolo e io sbottai: «Ma situ sempia!» Mio papà non disse nulla ma la sera mi chiamò in disparte e mi disse: «Quando che te me sentirà mi dirghe “sempia” a to mare o a valtre allora te podarà dirlo anca ti!» Fu la più bella lezione che potessi ricevere: da allora non pronunciai più offesa e ancora adesso faccio fatica semplicemente a citare le parole offensive.

Mio papà leggeva sempre il Gazzettino, glielo portava a casa la maestra Saladini, che abitava nella casa che adesso è di Trussardi e Perissinotto; non so dove la maestra lo andasse a comprare, lo leggeva quasi tutte le sere, me lo ricordo perché spesso toccava a me andarlo a prendere dalla maestra Saladini e ricordo che una volta uscii a prenderlo con una nebbia, era gennaio, mia sorella disse che lei non ci sarebbe andata neanche se l’avessero accoppata e toccò a me andarci. Anch’io amavo leggere e allora, quando ancora abitavamo vicino ai Bertolini (prima che dividessero la casa e ci venissero ad abitare gli Zanco, e i Bertolini andassero in Piemonte), loro avevano una zia che lavorava allo “stabilimento” di Noventa (lo jutificio), e a Noventa c’era già una biblioteca e lei mi portava a casa sporte di libri e io me ne leggevo uno ogni sera.
Io mi ricordo dei figli di Arduino che avevano la mia età, avevano un anno di differenza tra di loro, Ettore e l’altro. La moglie del dottore diceva a mia madre: «Vogliono giocare con la sua tosetta, ma vorrei che anche lei venisse qualche volta qua» e così qualche volta andavo io da loro, e talvolta venivano loro da me.

Ricordo che quando avevo 9 anni [nel 1939] ci avevano dato un distintivo con su scritto «Dio stramaledica gli Inglesi» da mettere sul grembiulino. Mia madre non me la fece mai indossare. «Se la maestra ha qualcosa da dire che venga a parlarmi. Dio non stramaledice nessuno». E la mia maestra, che era la Zora degli Antoni, non disse mai nulla, anche loro erano obbligate a obbedire e fece sempre finta di non vedere che non avevo la spilla. Il sabato fascista noi Piccole Italiane dovevamo fare ginnastica, e la mattina, prima delle preghiere, dovevamo pronunciare il giuramento del Duce: “Nel nome di Dio e dell’Italia giuro di obbedire agli ordini del duce e servire se necessario col mio sangue la causa della rivoluzione fascista». Tutte le mattine.

Durante la guerra

Nel luglio del 1944, quando il paese subì un grosso bombardamento e noi ci andammo a rifugiare lungo i fossi della Bissa Pittana, ricordo che anche alcuni tedeschi vennero a rifugiarsi lì. Allora mio padre volle che ci trasferissimo da mio nonno a Monastier dove eravamo più sicuri. Nella tiesa [nel fienile] s’erano rifugiati anche dei giovani che non volevamo più partire per la guerra. Là mio padre portò tutti i materassi che c’erano qui.
Davanti alla porta del campanile gli uomini avevano costruito delle protezioni fatte di pali con dentro sacchi, in modo che le schegge non colpissero la porta, e perciò il campanile era considerato sicuro, lì si rifugiavano tutti quelli che non potevano andare altrove.
Avevamo dei tedeschi in casa, c’erano tanti tedeschi a Croce, soprattutto nelle scuole, e dopo il luglio, quando molti andarono via sfollati e lasciarono vuote le loro case, i tedeschi occuparono le case vuote. Un giorno che io e mio padre tornammo a casa nostra, la trovammo aperta, era rimasto solo un letto in casa perché gli altri mio papà li aveva portati a Monastier, e trovammo due tedeschi, un ufficiale e un interprete, e l’interprete ci spiegò che non avevamo nulla da temere che non ci avrebbero fatto niente. E si comportarono sempre benissimo con noi. Io là studiavo e la sera facevo da mangiare a mio papà. I tedeschi non si facevano mai vedere. Dormivano uno sul letto e uno per terra. E vennero anche al battesimo di mia sorella Luisa, che era nata poco dopo che eravamo andati sfollati a Monastier, i tedeschi infatti erano cattolici e mio padre li invitò al battesimo, e loro vennero in bicicletta e poi la sera se ne andarono via prima perché dovevano esser a casa entro una certa ora. E quando alla fine dovettero scappare e abbandonare il paese in ritirata mi ricordo che il tedesco mi disse: «Mi dispiace non ho nulla da lasciarti, ho solo questo» e mi lasciò una forbice e un fischietto. Erano brava gente. E io non capisco come si potesse odiare il nemico.
Io ricordo Arturo Antoniazzi, tremendo, sfegatato, ce l’aveva con chi non la pensava come lui. Mio padre non voleva entrarci con lui. Mio padre portava la camicia nera perché così – diceva – l’olio, l’unto delle macchine da lavoro, non si vedeva sui vestiti. Ma quando veniva a mangiare, mio papà si lavava e si cambiava dalla testa ai piedi, non portava più la camicia nera.
Verso la fine della guerra, quando a Monastier fu bloccato un plotone di tedeschi che giungevano da Jesolo, c’erano i partigiani, poco prima avevano catturato anche un fascista, mi ricordo che una donna disse: «E allora l’avete fucilato quel fascista?» «Adesso lo portiamo dietro e lo fuciliamo…» «Ma siete matti – dissero mia madre mia zia – è una persona!» Io allora non diedi ragione a mia mamma e mia zia perché mi sembrava che avessero torto, ci misi anni a capire che avevano ragione.

Dopo la guerra

Ricordo che c’era don Mario Paccagnan che abitava in asilo, quando venimmo a casa sfollati da Monastier (stemmo via sette mesi in tutto). Ricordo che quando ritornammo da Monastier a Croce ci accolse il saluto festoso di don Mario Paccagnan. I carri armati erano stati fermi due giorni sulla strada e sul Pra delle Oche e tutti avevano festeggiato la vittoria. «Ma che vittoria... – disse don Mario vedendo mia madre arrivare con la piccolina, la Luisa – ci è arrivata qui una vittoria!» alludendo alla piccolina. E invitammo don Mario a pranzo. Accettò volentieri perché a casa sua non avevano preparato niente.
Non vidi nessuna scena da film con gomme e cioccolata. Poi dall’America (e anche prima) mandarono tanta roba per tutti, ma c’era chi la imboscava e poi la vendeva. Io e mia sorella Lina cominciavamo in quel periodo a lavorare, e mia sorella disse vediamo come è fatta, se era buona, e ne comprammo una tavoletta. Non voglio dire chi fosse che imboscava la roba, ma ce n’era anche a Croce di brava gente che imboscava gli aiuti degli americani. Però noi italiani siamo bravi anche a rimboccarci le mani. Le cose cominciarono subito ad andare in meglio. La nostra casa in piazza Tito Acerbo fu costruita nel 1945, appena finita la guerra, nel posto dove c’era la baracca di Guerra, Leonardi, Simonetto e una quarta famiglia che non ricordo. Noi venimmo a stare qui e i Leonardi, che abitavano nella baracca che doveva essere demolita, andarono ad abitare nelle stanze che avevamo lasciato libere dall’altra parte. I Guerra invece occuparono l’appartamento che era stato del dottor Arduino, che aveva una scala indipendente, una stanza d’ingresso che era la sala d’aspetto e una cucina. I Simonetto andarono poi in Piemonte.

Mio padre costruiva carri da lavoro, ma era uno che si ingegnava e sapeva guardare avanti: lui e suo fratello costruirono le prime falciatrici rudimentali. Subito dopo la guerra, le prime trebbie che circolarono in paese furono quelle dei fratelli Lorenzon. In pochi anni mio papà e mio zio fecero soldi con la trebbiatrici, le fecero venire a Croce per mezzo di Nino Basso, un commercialista di San Donà che le faceva venire da non so dove; prima una trebbia e poi anche un’altra. Le tenevano in via Casera dove c’era il laboratorio, che era per metà di proprietà dello zio, El Moro, che faceva il fabbro, e per metà del papà che faceva il falegname; là c’erano le tettoie e lì sotto lasciavano le trebbiatrici. E avevano 8 pigiatrici d’uva: avevano cominciato con una e poi, una alla volta erano arrivati ad averne otto, e tutte le famiglie si rivolgevano a mio papà e a mio zio. C’erano solo loro a Croce con le trebbiatrici e le pigiatrici, andavano in giro dappertutto, erano dei grandi lavoratori, non si erano fermati, erano andati avanti, era soprattutto mio pare che aveva testa, lui vedeva sempre più avanti; tanto che il suocero, mio nonno materno, gli diceva: «Lino, se te va vanti così, te mori zovane...»
Quando poi si divisero, si tennero una trebbiatrice per ciascuno.

Poi, quando mio nonno venne a stare qui, leggeva l’Avvenire d’Italia e L’Osservatore Romano, che passava a comprare a Monastier. Mi ricordo che qua avevamo la luce, ma (dopo la guerra) ci misero su un limitatore in modo che non consumassimo troppa energia, per cui se attaccavamo una lampadina dovevamo spegnerne un’altra. Ma io, che non avevo paura di niente, ricordo che mi attaccai coi fili fuori di casa, così non saltava niente.

C’era un bellissimo rapporto tra la nostra famiglia e don Natale. Don Natale era buonissimo, aiutava tutti, restava “pelato” di tutto, non aveva neanche da vestirsi. «’L à ’e braghe che no sta su» mi dissero, e io feci per lui un paio di bretelle, dato che non aveva neanche le bretelle. Sarà stato nel ’48, nel ’50.
Ricordo che don Natale era una persona disponibile. Mio papà, quando andava in giro per le famiglie a stabilire le divisioni degli averi quando si staccava una colonna, anche fuori parrocchia, aveva modo di constatare che tutti conoscevano di fama don Natale. Mio nonno a Monastier disse a mia mamma: «Ti che t’ha quel prete bon, dighe che so ’a campagna i sorzi ne magna fora tuto, dighe che’l fae calcossa» e le diede un’offerta per lui, ché i preti hanno sempre un sacco di spese. E mia madre andò da don Natale e gli disse: «Sior piovan, m’ha mandà me papà par domandarghe se’l pol... e mi ha dato quest’offerta per i bisogni della parrocchia». Lui dapprima non volle niente, ma io insistetti e allora lui li accettò e disse che li avrebbe impiegati per chi ne aveva bisogno. «Dighe a to papà che i sorzi non ghe magnarà pì gente...» mi disse, e così fu. Sarà successo nel ’47-’48.

Don Natale non si è mai intrigato di politica, non ha mai preso posizione nette. Lo posso testimoniare perché io, che sono andata a messa fin da piccola (mio padre mi chiedeva sempre «Che predica ha fat el piovan?» per vedere se ero andata a messa) mai lo sentii parlare di politica: lui condannava i peccati, ma non discriminava i suoi parrocchiani per le idee politiche che professavano, non ha mai allontanato nessuno da sé.
Il quartese era molto sentito. Lo si pagava in autunno. E chi non aveva terra e non poteva pagare in natura dava qualche soldo. Da casa di mio nonno portavano tanta roba in canonica, come pagamento del quartese, e poi don Natale la vendeva, c’erano i fabbricieri che si occupavano di queste cose. Tra i fabbricieri ricordo che c’era Montagner, Giulio Rasera (me li ricordo perché venivano a giocare da mio papà l’ultimo dell’anno), Giulio Sgnaolin... Poi anche mio papà per un periodo fu fabbriciere.

Mio papà poi si ammalò di tubercolosi. La malattia la prese a 48 anni, nel 1948. C’era uno che riempì bene il paese: sapendo di essere malato avrebbe dovuto stare attento e invece andava al bar. Si sa com’era l’igiene a quel tempo... E così mio papà ne fu contagiato. Mio papà andava a Monastier con borse di soldi per comprare la streptomicina che arrivava dall’estero, quando era ricoverato a Monastier, perché allora gli artigiani si pagavano tutto (io sono stata la prima a mettermi in regola con la cassamutua), mio papà si mangiò capitali in streptomicina. Con la streptomicina cominciò a stare meglio.
Io mi porto dentro un rancore contro un dottore della casa di cura a Monastier che gli disse «Ti curo mi...», ma lo curò solamente finché mio padre ebbe soldi, e quando ebbe finito i soldi il dottore gli disse che al Dolo c’erano delle case dove curavano la tubercolosi gratis. E quando mio padre arrivò lì al Dolo gli dissero che se fosse andato subito sarebbe guarito prima e senza spendere un soldo. Quando poi venne a casa dal Dolo aveva l’ordine di stare a riposo, era debole, ma gli fece voglia di ricominciare a lavorare, contravvenendo i dettami del medico, e si riammalò e non si riprese più.
Mio papà morì di tubercolosi nel sanatorio di Mirano il 26 o 27 aprile 1951.

Iseo Cosmo e sua moglie erano socievoli. Erano anziani. La figlia Fosca aveva paura di contagiarsi e raccoglieva i soldi con i guanti. La Fosca aveva due, la Lidia e la Irma. In prima io ebbi la Lidia come maestra che poi si sposò e poi andò a Musile. Avevano poi la sorella più vecchia che abitava in montagna. Compravano pane, di tutto, pasta, olio, aceto.
Anche da Maschio c’era un negozietto, soprattutto di frutta e verdura, poi la domenica andavano in giro col carretto.
Sul casello c’era Pittana e prima della guerra c’era... non mi ricordo. In quella casa il padre Giovanni era un gran fascista e il figlio era partigiano, c’era la guerra in casa, il padre continuò a essere fascista anche dopo che fu fucilato il figlio. I fratelli non perdonarono il padre. La sorella Ines aveva sposato Perissinotto...

In casa di partigiani e fascisti non si parlava mai. E quando nel ’48 vennero le prime votazioni «Finalmente un partito che piace a me» disse mio papà. LEra la Democrazia Cristiana. Allora tutti i partiti si rispettavano: Comunisti, Socialisti, Democristiani, non come adesso…...
Postino era Gusto che venne sul finire della guerra. Sempre lui. Lui era invitato da tutti. Prima di lui era la Melia.

I pronipoti di don Natale abitavano in asilo, in due stanze, non abitavano in canonica, non c’era posto in canonica. Forse il piovan li aveva mandati via. No aspetta. Là abitavano gli Sforzin, era stato Tromba il bambinetto che era andato a robare. Dicevano che erano stati gli Sforzin a rubare. Erano ultrapoveri. I pronipoti vivevano sulle spalle dello zio. Non era stupido ma un po’ credulone forse sì. Non ho mai sentito delle sorelle e delle nipoti di don Natale. Mai sentito. Mi ricordo le processioni Quando ero bambina andavamo a vedere com’era seduto il bambino sulla madonna, un bastonetto sul ginocchio della madonna e sul sedere del bambino, io avevo coraggio ed ero andato a vedere. L’abito della madonna era azzurro pallido, statua che veniva portata in giro alla Madonna del Carmine, noi andavamo in processione con l’abito della prima comunione anche le più grandi, mia madre ci ingrandiva l’abito, noi non siamo mai andate dalle sarte Ionio organizzò il ballo e noi passavamo per la porta dietro per tornare a casa. Dall’angolo della scuola tiravano avanti e chiudevano con una rete. Io mi ricordo che per tanti anni il ballo fu qui. Era dopo la guerra, nel 1946, per diversi anni… Un anno lo fecero davanti alle scuole ma qualcuno protestò, ma qui dietro andarono avanti per tanti anni… Lorenzon non si lamenta… Andavano avanti al massimo un mese.. Il carrettino gliel’aveva fatto il mio povero papà. E lo tiravano con la bicicletta. Io ricordo che venne col carretto anche quando andammo a vedere che mettevano la prima pietra a Millepertiche [nel 1936], che andavamo tutti, bambine piccole e grandi, Poi i Fornasier ne fecero un altro Quando fu asfaltato l’argine dissi «J’à fat ’na Triestina anca sull’argine!» Io la Triestina l’ho sempre vista asfaltata. Quando avevo 3 anni (nel 1933) io andai con mio papà che mi portò dal colonnello Gioia che c’era il fattore e lì c’era una signora con tanti bambini e una dei tosatei disse: «Non ho mai vist ’na tosetta cussì brutta» e io piansi perché nessuno mi aveva fatto mai altro che complimenti La Antonia ebbe la Rina Siega. La Ebe Carafa Lorenzetti era tremenda, era fascistona, a nessuno piaceva, Mia sorella è morta cinque-sei anni fa. Due suoi figli sono andati via, uno a Milano Lei era andata a Mestre a farsi operare una vena. È morta sotto i ferri, di embolia. Ci manca Guido, che passava tutti i santi giorni, rendeva in giro un po’ Romeo, se lo portava a Motta. Guido era straordinario. Un uomo buono uguale non c’era… Mia sorella Lina aveva questo sala, i figli non volevano darla via, e così noi abbiamo preferito dar via la nostra e prendere quella di mia sorella, così quando i nipoti vengono qui, trovano un pezzo della loro vita. Il pane io andavo a comprarlo da Filiputti. Mio papà portava a casa il grano, io facevo il pane a casa e lo portavo a cucinare a Fossalta. Anche la pasta facevamo in casa, spaghetti, galani, con la macchina da pappe… Da poco ho smesso la tradizione dei galani, C’erano sarti a Croce. Zanco faceva vestiti da uomo. Zanco era quello che lavorava di più. Lui era il sarto ufficiale. Sarte da donne c’eravamo solo noi. La Aliprandi venne molto dopo. Il dottor Rorato avrebbe voluto che sua morosa facesse la sarta… Prima cominciò mia sorella, poi io, poi mia sorella, avevamo sempre ragazze a lavorare da noi, arrivammo fino ad essere in 12-13, lavoravamo dentro qua, c’erano tre macchine per cucire, un banco, un tondino per appendere abiti, ne facevamo anche 35 in una settimana, le tose tutte torno non si intrigavamo mai… Le donne che vennero qui impararono bene, perché noi eravamo pignole, la Tersilla Simonetto prima di sposarsi si mise in proprio e ci chiamava o me o la Antonia o la Luisa a controllare se faceva bene… Tutto il paese veniva da noi, veniva gente da Mestre, da San Donà, da Bologna… le figlie di Furlanetto cominciarono a insegnare e allora vennero tutte le maestre, professoresse, ma davamo sempre la preferenza a quelle del paese e a quelle che potevano manche. Certe donne dovevano venire all’una e mezzo d’estate perché il marito andava a riposare e poi dovevano andare a lavorare col marito sul campo… Allora io che avevo la patente andavo io così risparmiavo loro una scaldata in bicicletta. Una volta obbligai una signora a riportarmi il cappotto che le stava benissimo ma che aveva la tendenza ad andar via incurvata davanti. Sono perfezionista. Io feci la scuola SNOB a Treviso, una scuola che aveva sede a Torino e una sede staccata qui, tre anni, avevo andò mia sorella Un anno solo per conoscere le figure e conoscere i difetti delle persone. Si andava tre volte la settimana, in bicicletta, o la mattina o il pomeriggio talvolta Lavoravamo giorno e notte, con tanta passione, Di stoffe ci rifornivamo da Fregonese, ma soprattutto da Pasini a San Donà. Poi due dei fratelli Fregonese andarono a stare a Meolo e misero su un bel negozio. I Fregonese erano qui nel 40, poi restarono qui le due sorelle Io non sono una pessimista, vedo sempre il bicchiere mezzo pieno, quando Guido è morto Guido mi sembrava un colpo insuperabile, ma poi mi sono detta che Guido non avrebbe voluto, e così mi sono fatta coraggio. Entrambi i cimiteri avevano la mura tutt’attorno. Nel cimitero militare c’erano morti stranieri, alcuni solo con la croce, senza nome. Il cimitero militare aveva l’ingresso dalla strada direttamente, almeno così mi sembra, talvolta guardavamo dentro dalla strada. Quando tirarono via la tomba di Tito Acerbo lì Stocchino costruì la sua tomba di famiglia Cuppini era cavaliere, poi divenne Podestà. Dalla Contessa ebbe due figli, Giorgio e Ester. Ricordo che andai a casa loro a provare un capottino per Stefano. Giorgio era innamorato di una De Majo che era sfollata con la famiglia dal centro Italia e vivevano nell’agenzia di Cuppini. Erano scappati praticamente con niente. Lui era un ufficiale dell’esercito, e aveva tre figli, il maschio era laureato ma non lavorava e anche la ragazza che piaceva a Giorgio aveva un diploma. Non erano ricchi. Renato Cuppini non volle che Giorgio sposasse la ragazza, perché non aveva niente, non era un buon partito. Finita la guerra loro tornarono giù. Giorgio allora sposò un’altra, una Spinazzè, piena di arie e zuccona che era stata mandata via da tutti i collegi che si rivelò una pessima moglie. Quando si sposarono mandarono anche l’invito anche alla De Majo che declinò l’invito “La duchessa non può partecipare ecc. ecc.” Era una duchessa! E non si mostrarono mai. Erano signori. Intelligenti Ebbe da lei un figlio, Stefano, ma la moglie era pretenziosa. Aveva una istitutrice per il bambino, una che faceva ilavori pesanti, una che faceva da cuoca. Giorgio aveva messo su l’Ilpa. Poi andò tutta in malora. La moglie gli mangiò tutto. Giocava al casinò. E lui fu costretto a vendere la villa a Rorato, anzi a svendere per pagare i pagherò che lei aveva lasciato in giro, al Casinò di Venezia, lei si trasferì a Treviso e lui fu partì per lavorare in Africa, era ingegnere, lavorava nell’entroterra, stette via anni, lì aveva anche una istitutrice per il figlio Stefano. Poi tornò in Italia, a Treviso, e scoprì che aveva un altro figlio, la moglie aveva avuto un figlio da un altro ma gli aveva dato il cognome Cuppini e Giorgio non poté dimostrare che quello non era figlio suo. Lei tornò a trovarmi. Lei mi portava libri. «Gli ho fatto gli auguri e sono venuta via subito..» e venne a trovarmi. Un giorno guardando la tivù lei era la direttrice dell’Ansa Dottoressa Contessa De Majo. Di una semplicità unica. A Renato gli stette bene. Quando arrivò la Spinazzè, gli sposi gli fecero una cameretta e un bagnetto per lui. Mangiavano insieme ma per il resto lui era sempre fuori casa, era diventato un estraneo in casa. Non vedeva l’ora di morire, diceva. Giorgio si sposò per disperazione. Rimanere da sposare era un’onta allora. Forse l’ufficiale non voleva far sapere da che parte era. Lei, la ragazza, di cui ero diventata amica, aveva un abito solo. E perciò non parevano ricchi. Loro non volevano far sapere. Stefano oggi ha 52 anni, perciò è nato nel 1948. Io andavo a provare gli abitini per Stefano. «La faccio accompagnare a casa da mio marito…» No grazie. Cuppini era già morto. Bidelle La Marta De Faveri si alzava alle cinque della mattina per accendere le stufe di tutte le classi, ci fu anche un periodo in cui non si trovava carbone e fecero l’impianto centralizzato e misero i termi in tutte le classi; quando andai a scuola io c’erano già i termi. Era molto pulita e ordinata, la Marta. Dormiva in una stanzetta che prima era un ripostiglio delle maestre;. faceva da mangiare nel pianerottolo e dormiva di sopra, me lo ricordo perché quando stette poco bene io andavano a farle le punture fuori dell’orario di scuola per non disturbare gli scolari. Poi venne la Linda. Cae de fero. Se volevi vedere carabinieri (i Conte!) dovevi andare là. I Conte vissero sempre di furterelli. Libri di scuola. Ogni materia aveva il suo libro. Le maestre sapevano di tutto. Io avevo la Zora degli Antoni che curava molto l’italiano «Quando avrete imparato questo, imparerete in fretta anche le altre cose». I verbi ci venivano fuori anche per gli occhi. Io feci l’esame in III e in V. C’erano quattro maestre per fare l’esame. Io mi ricordo l’esame di III, c’era mia cugina a far l’esame con me. Gli ultimi due anni ebbi la Saladini. La commissaria d’esame fece a mia cugina una domanda di Geografia. Mia cugina non lo sapeva. E allora vediamo chi la sa, chiese a me, e io lo sapevo. E la maestra nostra, la Saladini, le rispose che mia mamma ci teneva alla scuola e ci seguiva. Io imparai tante poesie. Mia mamma ci aiutava, ci invitava a leggere e a scrivere cosa la poesia ci suggeriva, «Prova a pensarci bene». Mia mamma era stupenda. Mio papà era impulsivo, ma buono. Lei lo sapeva prendere. Lui riusciva a farle fare i galani.. Mia mamma ci faceva tutti i vestiti, e ci vestiva quasi sempre di bianco. Lavare col mastello, avevano il pozzo. Andati a scuola i bambini, metteva su il magiare, su il mastello, La Antonia è del 33 era a scuola con Ugo Vianello. (Nella casa di Ervas) Nanei e la Bissa erano marito e moglie. La loro figlia, Irma, era poliomielitica, e poi si presero la Giovanna, la orfana, lei si portò dietro il cognome Cini. Più in là c’era la baracca di Vallese, l’uomo era morto, i figli erano Angelo, Francesco e Rino, la Lina, la Maria e la Rina, tre maschi e tre femmine; andavano a lavorare per le famiglie, a far mastelli, Rino andò in bottega dal papà a imparare il mestiere, la Rina, la più vecchia, quando venne grande andò a lavorare in jutificio (lo stabilimento) Tanta gente lavorava allo stabilimento e là si guadagnava bene anche noi pagavamo il giusto, la Maria e l’altra andarono a servire, a Venezia o a Milano. poi Scantamburlo Funerale di don Natale. Andai a vederlo nella camera ardente. Venne tanta tanta gente. C’era don Tisato, vecchiotto, e quello di Fossalta, e venne tanta gente da Millepertiche. Dei suoi parenti non seppi più nulla. Don Mario non volle andare in canonica e si sistemò in asilo: aveva fratello sorella mamma e papà. La cucina era di sopra e le camere erano in alto. Don Mario legò molto col paese. Don Antonio Campion “co ’a testa storta” (dice Romeo) non legò troppo col paese. Don Iginio era un bravo prete, veramente, ci sapeva fare con i figli. I ragazzi andavano meno con don Natale, perché aveva mentalità un po’ da vecchio. Don Iginio visse qui. Don Ferruccio invece si sistemò la canonica. Fece fare una scala esterna sulla canonica per il cappellano, dalla parte della strada, in modo che il cappellano fosse indipendente. La canonica non era ancora finita. Don Ferruccio aveva un tumore sulla testa, non stava più bene, stava peggio con le persone. Don Ferruccio non si lasciò conoscere. Se tu fossi andato via con lui qualche volta ti saresti accorto di come era generoso, accorto, diverso da come sembrava in chiesa. E poi aveva un fare coi ragazzi che li faceva cantare tutti, fece diventare il paese un paese di cantanti, che i vescovi si sorprendevano. «Vegno zo e te spache a testa...» diceva a parole, ma non toccò mai nessuno, ai bambini voleva bene, solo che non sapeva dimostrare quello che aveva dentro. Era accorto, se mandava qualcuno per lui in Curia rifondeva i soldi della corriera. Non lasciava indietro un franco. Cercava di rimborsare le spese di tutti quelli che lavoravano in parrocchia. E io ne spesi tanti, perché ho sempre avuto gruppi, fatto catechismo che quando ero in ospedale sono venuti un sacco di loro a trovarmi. Io andai a scuola di cultura religiosa ma ebbi sempre un metodo mio, chiesi sempre ai ragazzi cosa rimaneva loro in testa. I ragazzi prima bisogna lasciarli sfogare e poi ti ascoltano. I gruppi li tenevo a casa mia perché in canonica faceva freddo. E molti poi prendevano l’abitudine di passare per casa mia. Quell’anno che Luciano Traverso stava tenendo i bambini di III media era in crisi perché non riusciva a tenerli, e venne a raccontarmi che «intanto che piango mi viene in mente il divano della Maria Teresa. E ho capito che dovevo io prendere loro, non loro me». Quando maturò la decisone di entrare in seminario venne a dirlo a me prima di dirlo a sua madre. Non sapeva come dirmelo, ma lo immaginavo: «Vatu in seminario?» gli chiesi. «Ma se lo so a malapena io...» mi rispose.

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