Testimoni del Novecento
(Testimonianza raccolta nel 2010)

Emilio Calderan (1922-)

Mio nonno Basilio era un oriundo da Maniago, lavorava allora per i conti di Spilinbergo. I conti di Maniago non potevano più mantenerlo, erano in decadenza: «Atu voja de far el forner? Te mandén in un paese dove che é i nostri amighi, i Gradenigo» (cioè a Croce) e lui accettò, con il fratello, e venne a Croce; il fratello andò a Venezia a lavorare presso i Labia, discendenti di dogi, mentre lui rimase a lavorare presso i Gradenigo di Croce, padroni di tutte le terre di Croce, delle Case Bianche, di tutta a fraga de Caposil. [I rami dei Gradenigo erano due, quello di Leonardo che lasciò vedova la Rachele Sacerdoti, e quello di Piero che lasciò vedova la Morosina de Concina, NdC.]

Storia del forno dei Calderan. Era ancora prima della guerra 15-18. Grazie all’interessamento della contessa Gradenigo [la Morosoina de Concina, NdC.], che gli garantì che lavoro ce n’era, perché tutti i suoi affittuari e i mezzadri (che gli rubavano un sacco di roba) sarebbero andati da lui per il pane, Basilio lungo la via del Bosco costruì il forno. Cominciò così l’attività: all’inizio era ancora scarsa la produzione, all’inizio faceva il pane una volta alla settimana. Cominciarono tutte le famiglie di Croce a servirsi del forno di mio nonno, tutte famiglie che si erano messe insieme: i Mariuzzo, i Persico, i Sandro (=Piovesan), i Toresani (=Danieli), i Jet (=Orlando): Jijo Jet andava col mus a prendere la farina buttata là da Ferrari a Fossalta, perché Ferrari, prima di avere le corriere, aveva il mulino e macinava soturco e frumento per i contadini di Croce, difatti erano loro la cuccagna di Ferrari, e cioè i Bincoletto, i Piovesan, i Bergamo, un mucchio di contadini che si servivano del mulino di Ferrari: quando battevano il formento, Jijo Jet andava col mus a raccogliere i sacchi per le famiglie e poi andava a Fossalta al mulino di Ferrari e veniva a casa con la farina pronta per fare il pane.
Poi mio nonno Basilio si fece aiutare dai due figli, mio papà Santo e mio zio Bepi: facevano 5 quintali di pane al giorno. Cominciavano alle dieci di sera. Poi, la mattina dopo, mio padre partiva col cavallo e andava a venderlo lungo la Fossetta: partiva da Fossalta, dalla stazione - però la stazione di Fossalta è sotto Croce, Croce allora era comune, aveva il municipio [in realtà Croce non era Comune, a Croce vi era solo una sede staccata del servizio anagrafe, NdC.], ho abitato anch’io in quel municipio in tempo di guerra [si riferisce alla II, perché il Palazzo fu costruito nel ’22, NdC.], anzi, la mia famiglia ci abitò, perché io ero in Germania [Non ho capito se come prigioniero di guerra o come operaio a lavorare, NdC]
Con mio papà e mio zio lavoravano anche due dei Conte, Antonio e Carlo, mariti della la Isa e della Elena, sorelle di Bepi e Santo. Basilio fece lavorare i due generi lì con lui. In tutto erano in sei oltre al nonno: mio papà e mio zio, i due Conte, Ferruccio Pianca, Antenore Casonato, mio zio Angelo che sposò una sorella di mia mamma, una Sanson da Fossalta. E “misero su” un forno che era quasi industriale, riconosciuto dal governo, ricevettero sovvenzioni dall’amministrazione perché i contadini portavano sì la roba da cuocere, ma non avevano soldi per pagare, non c’erano soldi, venivano anche quelli che non avevano terra a far cuocere la loro farina, e i Calderan dovevano fare pane anche per loro, e dovevano farlo con la farina comprata, perché i poveri manco avevano la farina, era uno da Treviso che portava giù la farina, ma soldi per pagarla i poveri non l’avevano, e perciò il forno riceveva anche sovvenzioni dall’amministrazione. La Contessa li sosteneva sempre, dava loro la possibilità di tenersi i soldi degli affitti delle case, le casette che aveva dato in affitto lungo la strada, fino al bivio dove c’era la baracchetta di Damo, il dottor Damo, che aveva una figlia, che chiamavamo “la Dama”.

Venne la guerra. Mio padre era davanti al Municipio [?] e andò nel IX Bersaglieri, lì allora c’era Baretèa Gradenigo. [Chi è Baretèa? Il conte Gino?] Mio papà Santo venne a casa e sposò la Elisa [in che anno?], una figlia dell’impresario di Croce Granzotto (Primo), quello che fece la chiesa e il campanile e che costruì anche le case di contadini lungo la via del Bosco; di due casette piccole Granzotto fece due case grandi, quelle dei Torresani (=Danieli) e quella dei Perissinotto.
Durante la I guerra mondiale il forno fu occupato dai soldati per dar da mangiare all’esercito. Erano là perché avevano paura dello sbarco dei tedeschi. Cortellazzo era presidiata e mio nonno Nanèi [= Primo Granzotto, NdC.] andò a costruire tutti i fortini lungo la riva di Punta Sabbioni, tutti i pozzetti antisbarco, e là infuriò la guerra; e durante la guerra vennero a bombardare anche il forno dei Calderan.
Poi ci fu Caporetto e i Tedeschi giunsero sul Piave, ma non riuscirono ad attraversarlo perché il fiume, sai come faceva una volta, si ingrossò; ci fu una grande battaglia, i tedeschi bombardarono tutto il paese. E là [durante la Battaglia del Solstizio? Dopo?] c’erano ancora i Calderani che andavano a portare in giro pane, arrivavano fino a Portegrandi lungo la Fossetta, proseguivano lungo l’arzerin del Sil fino a Caposile, puntavano verso Salsi e Jesolo (allora Cavazuccherina), quindi Grisolera, com’era chiamata allora Eraclea perché lì facevano le grisòle per i cavalieri, perché all’epoca la gente per arrotondare allevava bachi da seta; arrivato a Grisolera, andava per i Stretti, fino al Ponte alto di Zheia... Tricche e trocche, mio papà andava via col carretto con una carrettata di pane e si addormentava, e i poveri glielo portavano via, perché lui dormiva e se lo faceva portar via, c’era fame e i poveri ne approfittavano; e una volta mio papà Santo venne a casa con tre ruote anziché quattro ché una l’aveva persa a Caposile.

Dopo la guerra la mia famiglia cominciò a rimettersi in sesto, qualche soldo girava; dei due figli di Basilio, Bepi era più furbo, Santo partiva col carro e tornava ubriaco, a lui bastava che la sera la terrina fosse piena de fasioli; Bepi era più furbo, si intestava a lui i soldi, mio padre Santo non gli stava neanche dietro, era convinto che ci fossero solo debiti da pagare; Bepi glielo lasciava credere e riuscì in realtà a mettere da parte un gruzzoletto e poi partì per l’America, per l’Argentina. Tutti allora partivano con le tasche vuote a causa dell’estrema povertà, e Bepi invece partì [in che anno?] col suo gruzzoletto messo da parte, tanto che in America impiantò una fabbrica.

Altri esercizi. Non c’erano altri forni in paese, c’era solo la bottega di Eliseo Guseo, e dietro la loro casa i Guseo lavoravano tre campi di terra, di proprietà dei frati di Mirano, perché i ricchi una volta lasciavano l’eredità in lascito ai frati.
Poi c’era el Casèl de l’argine, che era come una casa cantoniera, perché ci arrivava davanti la Triestina, quella di una volta, la Triestina andava dal Conte Gioia fino al casello dei D’Andrea (chiamati Pittana), che poi divenne osteria che poi ci andò mia zia Maria [una Franzin?] e poi ci andò un Falcier che aveva sposato una sorella di mia mamma
Poi c’era l’osteria di Angelo Longato detto Bravo, lungo la strada del cimitero, osteria e casuìn, e c’era il Mut Bravo che vendeva pesce, gli avevano dato i canali per poter pescare e poter vivere.
Poi c’era Maschio che si metteva con una caretèa davanti alla chiesa i giorni di festa e fuori da messa la gente trovava ciucci, frutti; lui non aveva il musso, si tirava il carretto a braccia fin davanti alla chiesa; e a casa invece vendeva piatti, scudèe, roba così.
E poi c’era Bergamo, un po’ più avanti della casa nostra, qua in via Morosina, che vendeva per un belcon (=attraverso la finestra), era la vecchia Bergamo di nome Domenica che aveva in tutto tre scatolette di ciucci e limoni, e i bambini andavano a prendere ciucci e limoni per un franco.
Ai Tre scalini c’era Costantini che veniva da Burano, la sua era un’osteria un po’ più discreta dell’altra [Guseo?] perché c’era un po’ di passaggio in quanto, anche se allora la strada era brutta, di là passava la strada che andava a Musile.

Mi ricordo che un treno deragliò [nel 1921, NdC.], pareva che fosse addirittura l’Orient Express che aveva fatto il suo viaggio d’inaugurazione, la ferrovia era a binario unico, e prima di arrivare sul ponte del Piave, il treno deragliò, andava troppo forte, la ferrovia non era ancora adatta alle grandi velocità, tant’è vero che poi cambiarono le rotaie, mi ricordo. Là è un rebus perché tutte le famiglie che abitavano là vicine, famiglie di contadini, poi diventarono tutti vivaisti, Lessi, Cancellier, Faggian comprarono terra e diventarono tutti signorazzi. Il treno qualcosa dovette aver buttato fuori. Perché allora non era come adesso che arrivano subito tutti, allora c’erano due carabinieri in bicicletta e arrivavano dopo mezza giornata.

Poi il municipio di Croce lo portarono a Musile [La sede staccata fu dismessa nel 1924, NdC.]

La chiesa aveva l’organo più grande d’Europa, andava a mantice, era Venturato che menava il manico tutta la domenica.

Don Natale è quello che ha battezzato me, no, mio padre, mio padre è stato il primo battezzato da don Natale. Se mio padre era amico di Don Natale? Mio padre andava a caccia e quando prendeva un fagiano lo portava in canonica al prete, non in chiesa, e bevevamo insieme. Che tipo era don Natale? Hai presente Giovanni XXIII? Era come se fosse stato suo figlio. Quando c’era la processione della madonna del Rosario e venivano tutti i preti a dire il rosario contro il colera, don Natale non è mai mancato. Poi gli toccò di vendere il cavallo perché non riusciva più a mantenerlo. E allora girava col biroccio e con i zaghetti, una pasqua.

Mio nonno Primo Granzotto aveva fatto la S.A.C.E., Società Anonima Costruttori Edili con sede a Fossalta, era lui presidente, aveva degli uomini sotto di lui, Capiotto, Fregonese, in pratica costruirono lui e i suoi uomini tutto il paese, e anca il campanile lo fece lui con i suoi uomini [nel 1924]. All’avvio dei lavori tutti coloro che lavoravano fecero una pergamena e la misero in una bottiglia, sai quando si fa la prima gettata prima di andar su con le pietre, e dentro la gittata misero la bottiglia, e c’ero anch’io in quel momento là. Mi ricordo che erano rimasti i pesi dell’orologio sul cortile di mio nonno Granzotto nel 1935 [?], dovevano comprare i pesi per l’orologio del campanile perché facesse l’ora giusta.

Cavaère, a Fossalta, andava lungo la Fossetta che era navigabile fino a Venezia, faceva la spola, era mio santolo, era amico di mio padre, portava le verdure raccolte nella campagne a Venezia e tornava indietro con uova con quadri con lampadari.

In chiesa, sopra l’altare maggiore c’era il baldacchino, non c’era l’altare che guarda il pubblico, il prete dava le spalle al pubblico. I banchi erano riservati ai conti, non potevi sederti sui banchi dove era scritto il nome dell’uno e dell’altro. I conti avevano due banchi lunghi davanti all’altar maggiore, Entravano con tutti i cuscini, e ogni tanto entravano in chiesa con gli amici, conti da Venezia, bisognava lasciare i posti liberi, noi giovani tutti in piedi, io neanche andavo a messa, ma in chiesa c’era la parte delle femmine e la parte degli uomini. Del coro facevano parte i Cancellier, Attilio Guseo (so pare della Isetta) che era il maestro del Coro, Chechi Camin era un altro maestro, c’erano i Pessutti, i Donadei... erano tanti, era un coro che andava a cantare in giro, rinomato, con due maestri in gamba.

La scuola era una baracca, il Genio Militare aveva portato una baracca dopo la guerra. Erano quasi tutte baracche in paese, e poi le comprò quasi tutte mio zio Toni, e poi gli diede fuoco e tirò i soldi dell’assicurazione, due le comprò anche mio nonno che ci mise dentro le figlie, la terra che è sopra le case è ancora intestata ai Calderan, ché il nonno non l’avrebbe mai intestata ai Conte; noi non abbiamo legato tanto con loro, sebbene fossero parenti, ma anche loro si tennero distanti, veniva solo mia zia Isa a trovare mia mamma ogni tanto, mia mamma le dava un pollastrello, delle uova, mia mamma era religiosa, la Isa ci trattava come se fossimo figli di conti, si sentivano inferiori, quante umiliazioni hanno preso, poverini.

Al servizio dei conti. Mia nonna Rubinata, la moglie di Basilio, era sorella di una che aveva sposato un Rigato, nonna dei Rigato che hanno fatto agenzie immobiliari a Jesolo. Costei aveva il palazzo vicino a quello della contessa, ma le due sorelle non andavano d’accordo perché la nonna Rigato lavorava dalla Contessa, la nonna Rubinata mai e perciò si videro sempre di malocchio [non so se ho capito giusto, NdC.] Nonno Basilio era tenuto in grande considerazione dalla Contessa che girava con il coccio [=il cocchio] quando doveva andare a fare il partì [=party] con le altre contesse, e Basilio era cuoco, anzi, capocuoco quando c’erano le cene, e maggiordomo quando c’erano i divertimenti danzanti.
Quando morì il conte vecchio (Piero) la Contessa si sposò con Cuppini, ufficiale dell’esercito. Io avevo libero accesso di andare a giocare con Giorgio, suo figlio, nato nel 1922, io solo c’ero, loro avevano l e maestre nel giardino, era una cosa seria, e noi eravamo considerate una delle migliore famiglie del paese perché l’altro col coccio [...?...] Lei ci mostrava le stanze e i cimeli di quando erano dogi di Venezia.

Dottore e levatrice. Il dottore Arduino da Genova era bravo, era bravo, era a capo del reparto degli ospedali, comandava tutti i soldati, quando arrivarono per prelevare i soldati dal cimitero militare per fare l’ossario di Fagarè [nel 30-32] e poi era rimasto, perché erano tutti poveretti e lui ebbe compassione [in realtà arrivò a Croce nel marzo 1925, NdC.]. Veniva nelle case a constatare che i bambini erano morti, i bambini morivano tutti di colica. C’era una portantina per la bara che era bianca. I tosatèi morivano come i pitussi. E poi c’era la levatrice, la mamma di... la siora... [Pina] Veniva sempre in ritardo perché doveva fare la polenta prima. Mio papà quand’era militare, ogni volta che veniva a casa in licenza nasceva un bambino.

C’era Anduin Menoeòt [il veterinario?] che andava a visitare i porzèi, li guariva tutti, avevano una fame e mangiavano anche il lebo, che era di legno, e allora metteva anche il ... [?] sul lebo perché non lo mangiassero; e quando il maiale aveva il raffreddore ci faceva portare le coperte e ci dormiva assieme, e li guariva.

La sera in casa c’erano tante mosche, in mezzo alla tavole in tutte le case c’era la moscariola, di vetro, con lo zucchero sotto, era fatta così, la mosca entrava e non ne usciva più. Noi prendevamo la moscariola, la svuotavamo, la legavamo a un bastone e andavamo lungo i fossi a prendere pesciolini piccoli, a menovaia li chiamavamo, li portavamo a casa e li friggevamo e li mangiavamo con la polenta; andavamo a letto cantando.
Oppure, quando pioveva, andavamo per i campi con una coperta, due tenevano la coperta per gli angoli e l’altro sotto col vasetto raccoglieva gli s-ciosi che salivano lungo gli alberi, e allora facevamo la fortaja coi s-ciosi.

L’acqua in casa arrivò tardi, avevo sui dieci anni, fecero l’acquedotto lungo l’argine San Marco, tubi fondi 5-6 metri, andarono avanti anni, partirono da Sabbioni, arrivarono in centro del paese dopo un anno, in centro avevano fatto una fontana a getto continuo, e dopo fecero arrivare i tubi alla ferrovia, al casello 29, e là andavamo a prenderci l’acqua, perché avevamo tutti un pozzo, ma dentro ci finiva di tutto, polvere, foglie, l’acqua non era limpida.
Le bombole di gas le portarono per primi i tosati di Fornasier; prima che arrivasse il gas si faceva il cavedon e fuoco con le fascine.

Sagra. C’erano le bancarelle e anch’io feci la bancarella in sagra, andai in prestito della carretta dai Torresani, dalla Bruna mia sorella che ci mise una tovaglia sopra, durante la notte feci un mucchio di pane e di paste e feci tante di quelle robe, sassetti, ciondoletti, quello che vedevo fare nelle altre sagre e riempii la carretta, la portai in piazza davanti a mio zio, a mia zia Isetta, dove c’era mia nonno, la famiglia vecchia, portammo fuori un tavolino con la cassetta, la Bruna fece da banconiera e vendette tutto. Prendemmo un mucchio di soldi e a casa mi saltarono addosso come se fossi miliardario. Nacque così il mio mestiere.

Amori e tradimenti. C’era la Canàgoea che faceva la troietta, ma a casa sua faceva quello che voleva. Noi bambini non capivamo niente, c’erano degli omenati che andavano da lei e poi dovettero andare in America perché avevano fatto i corni alla moglie, ma quella è una roba delicata.
Se so di furti in canonica? Non se ne parlava, son andat anca mi a rubar in canonica, pomi, vin, si andava tutti a robar in canonica.

La statua nuova della Madonna. Io dipinsi sulla cupola le stelle, mio zio Chechi aveva dipinto di blu il soffitto della nicchia e io andavo a tenergli gli stampi per fare le stelle.

Fecero sparire il monumento [nel 1942, NdC.], un ardito con il petto scoperto da far invidia al bersagliere che c’è sul ponte di San Donà. Durante l’occupazione tedesca io ero in Germania, cinque anni.

Col conte Gino finì la dinastia dei Gradenigo. Il contessino [=Gino] era sempre ubriaco, era l’unico che poteva mantenere il nome dei Gradenigo e invece el g’ha bevù fora tut. Di giorno non salutava nessuno, sempre in bicicletta, andava a visitare le sue campagne, le Case Bianche; la sera prima di tornare al palazzo, andava in osteria dal Casel e ordinava “Da beva per tutti”, ma lui non tirava fuori soldi; il giorno dopo doveva passare l’agente a pagare il conto. Quelli del Casel hanno fatto i soldi perché anche se guadagnavano poco a causa dello scarso passaggio di clienti, il conte Gino che gli aveva fatto “il lascito”...

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