Sono vissuta in Passarella nella casa vicina alla casa dei Piovesan e alla casa dei Dariol che allora era appena stata costruita.
Nel 1940, a 23 anni, mi sposai con Emilio Mariuzzo, e venni ad abitare nella casa dei Mariuzzo, lungo la Fossetta, vicina alla casa di Ormenese che adesso è il baraccone da feste di Capiotto. E passai dall’essere in due in casa, io e mia madre,
in casa di una famiglia dov’erano in venti persone.
Rimasi trent’anni lì, fino al ’69, poi ci trasferimmo qui in via Casera e sono quarant’anni che siamo qui.
A messa andavamo a Ca’ Malipiero. Veniva “il prete grasso” [=don
Natale] a far messa alle 8,
dopo che aveva fatto la messa alle 6 in parrocchia e prima di quella delle 10.
Lui veniva alle otto con il cavallo e il biroccio. C’erano tosati insieme con lui.
Don Natale voleva che tutti entrassero e faceva segno che entrassero, lasciava aperte
le porte, non permetteva che rimanesse la gente sulla strada.
Invece in seguito don Ferruccio aveva la cattiveria di chiudere le porte e di lasciare la gente fuori, anche al freddo in inverno e invece il prete grasso ci lasciava entrare tutti, veniva gente anche da distante per ascoltarlo… Era un bravo
prete “il grasso”, serio, non dava confidenza, ma era sempre puntuale a Ca’ Malipiero, e prima delle messa si metteva a confessare in chiesa. La chiesa poi si riempiva fin sotto l’altare. La gente veniva dalle Millepertiche e da Meolo. La messa era alle 8, perché alle 10
il prete doveva dirla a Croce. Sempre il grasso veniva. Io mi confessavo a Ca’ Malipiero. Anche dal grasso,
ma più spesso da don Ferruccio; c’era il confessore [=il confessionale] là, il prete confessava prima di cominciare la messa. C’erano i chierichetti, sì, si arrangiavano, facevano belle messe ma era dispettoso
don Ferruccio.
Il grasso era un prete buono, io non posso dire niente. E quando veniva a benedire le case non andava neanche di sopra ma andava fuori a benedire dappertutto, le bestie, i maiali. E veniva ogni anno, dopo le feste di Pasqua, mi ricordo che quando veniva
jera caldét. Veniva sempre lui. Invece adesso una benedizione veloce e via…
Dopo se ven voltà [=abbiamo cominciato] ad andare a messa a Meolo. La messa a Ca’ Malipiero era alle 8, era troppo presto e lui,
don Ferruccio, ci chiudeva le porte, invece quello grasso no, che chiudeva solo quando eravamo tutti entrati.
Non davamo quartese ai preti. Davamo il pollame al paron (le onoranze) ma non ricordo che dessimo qualcosa al prete. I meglio pollastri,
i capponi, li davamo al paron. E non preparavamo l’altarino durante le rogazioni. Da tosa l’avevo fatto, andavo sempre a processione, ma qua no.
La casa con la scritta (“Nel segno del littorio abbiamo vinto / nel segno del littorio vinceremo”) era quella di Ormenese, che adesso è di Capiotto, ma io non mi sono accorta della scritta.
Il castaldo, morto l’anno scorso, era un brav’uomo, Giorgio Amistà,
queste erano terre del padrone, di Treviso, che veniva raramente, non mi ricordo il nome.
Figli
Io venivo in piazza Croce quando portavo a battezzare e cresimare i miei figli. Io ho perso un figlio di 10 anni, veniva a messa e vespro a Croce a piedi, era del 1942, adesso avrebbe 66 anni, era 6 anni più vecchio di Giannino. Si chiamava Franco
[me lo dice sottovoce]. E Don Ferruccio gli aveva dato il premio della dottrina.
«Che strada fatu» gli chiedevo, «Vae drio ’a strada del treno, e quando vede el treno me bute in parte»,
cioè veniva a Croce lungo la ferrovia.
E mi è morto qua, su’a passada de casa. Gli uomini avevano prestato il getto agli Ormenese per pompare, e il tosatel mio stava facendo i compiti. Mio nipote Orazio mi disse: «Zia, dighe a Franco che’l vae a cior el getto da Ormenese» e io lo pregai di andare, che lui non voleva neanche andare ché doveva studiare, e io insistetti: «Valà, che se no i bestema…» Non bestemmiavano, a dire il vero, ma lo dissi così per dire. E c’erano i buoi davanti casa e su quella che lui guardò verso Mestre arrivò la macchina da San Donà e me lo buttò sulla strada. Morto, in terra. E l’avevo mandato io da Ormenese. E io non riuscivo più a passare per la Triestina, tant’è vero che poi andai a stare da mia mamma in Passarella, e rimasi via un anno da mia madre che non volevo più venire a casa; e venne anche
don Ferruccio a dirmi di tornare. Ma io mi sentivo in colpa, che l’avevo mandato io. «Cosa vuoi piangere da quella volta in qua» mi dicevano, ma fui io a mandarlo sulla strada e mi sento in colpa, ancora adesso, quando ci penso, mi viene da piangere. Avevo già perso un figlio, il primo, nato nel 1941, che mi morì di 40 giorni, ma a quello non penso gran tanto come l’altro… Io ero con il dottor Da Re da Fossalta, veniva da Fossalta, che mi diceva che il bambino non aveva niente, aveva lo spasmo, si diceva, ma io lo attaccavo al seno e non tirava sotto di me… Finché mi morì tutto gonfio.
E Giannino, il terzogenito, ne ha 6 meno di Franco, perché nacque nel 1948. Sicché di tre restai con uno.
Quando io venni via da casa mia in Passarella ero rimasta io da sola con mia madre, perché i miei fratelli erano già andati a lavorare. E venni qua e trovai un sacco di gente. Là dai Mariuzzo eravamo 4 cognate. Quando mi sposai qui già ce n’erano tre: la mamma della Paola, una da Fossalta e quella di Francesco, e io che
facevo 4.
Mi ritrovai in mezzo a una famiglia di 20 persone, e tornerei ancora, cheé a me piace la compagnia, mi piaceva la famiglia; è per quello che qui abbiamo fabbricato tutti da vicino.
Mi toccava venir su la mattina presto a buttar i zopponi su dai cavini, distribuite
una par cavin… in tempo di guerra
Con gli uomini in guerra eravamo quattro donne a casa, e un uomo, perché uno degli uomini non andò in guerra. E portavamo i sacchi da Ormenese,
ché facevamo là l’agenzia, su in alto sul graner e quando eravamo giunti in cima buttavamo giù il sacco, stanche morte.. Ah, quanto ho lavorato, abbiamo fatto una vita…
Andavamo d’accordo, una parola ogni tanto…
Quando lavoravamo sui campi, andavamo a casa, se nicurava el fiol [nato nel 1942 quindi siamo nel 1943] e poi si tornava sui campi, si arava anca con 4 buoi, non mi toccò di andare a mungere le
mucche.
Noi avevamo il forno da pane, metà paese veniva a fare il pane, veniva perfino a notarse, e il forno sfornava di quel pane… Non abbiamo tribolato, no, in tempo di guerra…
Non abbiamo visto militari… Però durante la guerra sentivamo i bombardamenti, bombardavano la ferrovia.
Servizi
Non c’era bagno in casa, ma si andava nella corte, dove c’era un cesso di muratura, con la porta di legno. Per la notte in casa c’era la “comoda” che si metteva nel comodino.
Soldi
La famiglia, che pure lavorava le terre del padrone, a cui si dovevano le onoranze a Pasqua e a Natale, non patì mai la fame, neanche durante la
guerra: noi... mai patita la fame, lavorato tanto e tanto, ma mai patita la fame.
La famiglia riuscì anche a mettere via dei soldi perché un lontano parente, un Mariuzzo Antonio che poi andò ad abitare dalle parti di Torino, aveva dieci campi in bonifica alle Trezze e li vendette ai quattro fratelli, i quali lo pagarono con i raccolti degli anni successivi. I guadagni di quelle terre in bonifica venivano divisi equamente tra i quattro fratelli e le
mogli; e i fratelli in cinque anni riuscirono a pagarsi i campi. Le mogli con i soldi potevano fare quello che meglio credevano, o spenderli per loro e metterli da parte.
Ci si spostava in bicicletta e quando la bicicletta si rompeva la si portava da Attilio Tozzato e prima da suo padre Aldo, che occupò sempre quell’officina a Ca’ Malipiero, e aveva un sacco di lavoro, riparava biciclette, motorini, una volta erano tutte biciclette, i motorini vennero dopo la guerra.
Altre botteghe
Andavamo da quelli da Losson alla bottega della Fossetta, avevano tre quattro botteghe, c’era Di Qui Paolo e Giovanni, prima non mi ricordo chi ci fosse. Io non mi ricordo se prima c’era Minetto.
Alla fine degli anni Cinquanta, inizio Sessanta, la domenica veniva Casonato, il papà di Massimo, col carrettino all’ora
di messa e vendeva dolciumi, caramelle, e vendeva vendeva…
Non so com’era il paese, se c’erano poveri, io so solo che noi non abbiamo mai patito la fame.
Il cibo
C’era la Armida (era più giovane di me, lei, era sulle Vere, dal fattor davanti), la mamma della Paola, che andava dietro al pollame, e suo marito andava dietro all’orto, all’orto loro due, e poi lui veniva anche per i campi e noi donne una settimana per ciascuna facevamo i servizi e quando non li facevamo andavamo per i campi.
Facevamo le formagelle, mia suocera le faceva, Tilio Tozzato me lo ricorda sempre, «Quante formagelle mi ha dato tua madre…»
Sulla tavola non mancava mai la verdura, patate, fagioli, tegoline, insalata pomodori.
Il giovedì compravamo pesce, e poi avevamo salame sempre, due porzei all’anno, e vino
buono...[“Erano bravi a bruscare i Mariuzzo, mi ha ricordato mia madre: il
nonno Sante Zanchetta chiamava sempre i Mariuzzo a bruscare le sue vide…”]
Veniva Attilio Buranel con una carriola a vendere pesce? Per Croce….
Non c’era frigo, e consumavamo man mano.
La domenica sempre il brodo. Il sabato si uccideva un capo o due di pollame e tutto andava
mangiato, tutto... ma scherziamo! A me piacevano i radici e fagioli, I fagioli, che venivano messi a seccare, potevano essere mangiati in inverno.
a me piaceva la cipolla, anzi, lo scalogno. La sera andavo a prenderle le scalogne per buttarle sui radicchi e fagioli e veniva mia cognata Armida «E vutu magnarla tutta ti?» perché temeva che io me lo prendessi tutto. «Prenditene anche tu, furba…» le dicevo. La suocera poi veniva a
tocciare sul mio piatto, tanto era buono il sugo dei fagioli con lo scalogno..
La polenta sul fogher con la caliera appesa, poi la si
rovesciava sul tagliere e la si tagliava col filo, ed era polenta buona… Mangiare abbiamo mangiato, no posse dir de no…
La frutta era considerata un lusso o una medicina: si cucinavano le mele cotte per i vecchi o quando qualcuno stava male. Per quanto riguardava la frutta ognuna delle quattro famiglie provvedeva per sé, quando passava il pomaro. La frutta erano pomi e arance.
I compleanni non si festeggiavano una volta, poi, negli anni Cinquanta si cominciò a festeggiarli con una focaccia.
A Carnevale noi quattro cognate cucinavamo galani e frittole.
Feste
Alle feste andavamo a ballare all’osteria di Capo d’Argine da “Margherita”, da Petterle, io andavo via con mio marito a ballare, con la bicicletta, Franco era ancora vivo
[dunque prima del 1952], e mia cognata Olinda, mamma dei due fratelli che stanno sulla Triestina, Orazio e Roberto, diceva «Va, va… che ghe tende mi»; anche Orazio amava ballare [Orazio è quello che fa anche il barbiere, il papà della Stefania, Roberto è il papà della Federica] e aveva questa sorella più giovane. E purché gli portassi via la tosa la Olinda mi “tendeva” Franco. E così andavamo via in tre, Emilio caricava sul manubrio la tosa, che poi era grandicella, perché aveva già i mosconi che le ronzavano attorno. Andavamo a ballare anche sulla piattaforma lungo la Triestina, c’era una osteria… (Al California?) là dai Mutilati, quando suonavano, in primavera.
Anche alla Sagra di Croce andai a ballare io, c’era la piattaforma coperta, attaccata alla chiesa, quando cominciarono a far le sagre,
perché quando venni qua [nel 1939] non c’erano già le sagre a Croce [controllare]… Vennero dopo il prete grasso.
Mi ricordo che alla sagra c’era la processione con la Madonna. Quale? Questa, quella in piedi… È la nuora Raffaella, moglie di Giannino che si ricorda di quella seduta, vestita di azzurro: «Io avevo otto anni che facevamo la comunione io sono del 1952 e feci la Comunione nel ’61, saltai un anno per farla con le mie due sorelle. La madonna veniva esposta e facevamo la foto vicino alla Madonna e poi vicino alla grotta.
L’alluvione
La volta dell’alluvione ci portarono da mangiare, perché avevamo l’acqua in casa, tutto il pollame morto…
In via Casera
Nel 1970 venimmo ad abitare lungo la Casera. I quattro fratelli Mariuzzo comprarono quattro pezzi di terra, uno di fianco all’altro, da “Samassa” Forcolin.
Oggi a Ca’ Malipiero non c’è più nessuno, e una volta era un paese.
Ci sta Romeo con il figlio. Romeo va ancora a ballare al California. E poiché avevo caro vederlo, mio figlio glielo disse.
È venuto a trovarmi: io tutta goba, lui dritto come un filo. E va ancora a ballare.
Ed è un ballerino sopraffino, le vedove vanno a prenderlo su…
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