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Testimoni del Novecento
(Testimonianza raccolta nel 2008)

Vittorio Di Legui (1912-2013)

Nel 1917 avevo cinque anni, c’era la guerra, ma si andava tranquillamente per le strade, non c’erano pericoli per le strade, nient’altro che la strada stessa, non asfaltata e piena di buche, non c’erano automobili.

Ci fu Caporetto e ci fu la ritirata. Le ritirate sono come le avanzate: bisogna aver la forza di tenere i nemici fermi per permettere agli altri di salvarsi. Le retroguardie combattevano a rischio di rimetterci la scorza perché dovevano assicurarsi che il grosso delle forze si mettesse in salvo.
Musile venne tutta fortificata per affrontare il nemico, vennero posizionate armi, cannoni, munizioni… Musile era tutto fortificato.
Io me ne partii con la famiglia in treno per Salerno.
Tutti scapparono, sulle viti rimase l’uva da vendemmiare, gli animali nelle stalle. Tutti dovettero lasciare tutto. Circolò la voce che da Cadorna il Veneto era stato venduto fin sul Po.
Per fermare gli Austriaci furono aperte le porte grandi del Sile. A sud della Fossetta i terreni furono tutti allagati; in buona parte anche a nord; solo l’argine della Fossetta emergeva dall’acqua, questo fino al Ponte della Catena. E poco più a sud solo la strada delle Millepertiche emergeva dall’acqua. Il resto era tutta acqua.
Navigando su quell’acqua, Sante F., il nonno di A., riuscì anche ad arricchirsi con la sua attività di sciacallaggio; andava con la barca per le case abbandonate, e tutto quel che rimediava (andava via con la cannetta e dalle botti abbandonate nelle cantine rubava il vino e riempiva qualche ‘caretel’ di vino) andava a rivenderlo ai soldati al fronte. Guadagnò un sacco con quell’attività, tanto che poi riuscì a comprarsi 12 campi in bonifica a Millepertiche.

Profughi. La mia famiglia partì per Napoli. Prima giungemmo a piedi fino a Ca’ Tron dove arrivava il treno. Prima che la linea venisse interrotta il treno andava oltre il Piave, ma adesso quella di Ca’ Tron era la prima stazione agibile. Là le autorità imbarcavano tutti i profughi. Fu un viaggio lungo e disagiato, cambiammo tre tradotte, ma comunque eravamo confortati, cioè ricevevamo generi di prima necessità in modo da sopravvivere… Arrivammo a Maddaloni, quindi a Salerno.

Subito dopo la I Guerra Mondiale. Della chiesa era rimasta in piedi la facciata; le statue erano tutte crivellate di colpi. Allora, imboccata la strada di Croce c’erano solo baracche; c’era solo l’osteria poco prima della ferrovia che sarebbe poi stata gestita da Longato (e in seguito da Achille Davanzo e dopo ancora da Mario Barzan), che l’ottenne in quanto mutilato di guerra.

Dalla guerra tornarono le fiamme nere che cominciarono subito a spadroneggiare. La gente usciva impaurita, scioccata dalla guerra, ubbidiva a questi energumeni che giravano col triangoeo [= pugnale a sezione triangolare]. Mussolini fu abile a raccogliere queste squadre, promise mari e monti e posti di lavoro. Mussolini si faceva vedere sui campi a lavorare, sapeva attrarre consensi, Nenni e Pertini invece erano ambiziosi ma non sapevano farsi applaudire. Poi venne la Marcia su Roma.
Gli Italiani erano così intimoriti, avviliti, meno esperti, scioccati, ’i ciapéa paura de’a so ombra e obbedirono. I piccoli non tanto, ma i grandi dovevano levarsi il cappello e salutare i fascisti per non incorrere nelle loro vessazioni.
C’erano i fascisti, i socialisti e i popolari che si scazzottavano continuamente. All’osteria di Borgato (dove poi venne Muccelli, in piazza Musile) scoppiavano delle risse, una botta al lampione, buio e giù botte.
E in seguito, quando ormai il Fascismo era al potere, i fascisti facevano le marce fino al Cral cantando i canti fascisti (non Faccetta nera).

Scuola Andai a scuola a Musile nel ‘Baracon’ che era posizionato dove oggi c’è la Cassa di Risparmio. Lì c’erano la I, la II, la III elementare e in seguito anche la IV e anche la V. Frequentai fino alla III. Fare la V era come fare le medie oggi, le superiori.
Io era bravo con le caselle [=la tavola pitagorica], sparavo i conti a colpo de fusil, perché le maestre erano severe, bacchettavano.
La mia maestra fu la Pima Busato; poi c’erano le maestre Fassetta che abitavano dove c’è la casa del dottore. Le Fassetta erano tre sorelle, due facevano le maestre; poi c’erano maestre che venivano da San Donà.
Prima di cominciare la giornata di scuola si diceva la preghiera, tutti in piedi.
Alla fine le maestre accompagnavano gli alunni in fila fuori e le bidelle dicevano: «Bambini se domani vogliamo scaldarci dobbiamo portare un pezzo di legna».
I quaderni li forniva il Comune.
C’era un refettorio lì vicino, che offriva pasti caldi per i poveri, per quelli che abitavano lì vicino. Chi abitava più distante doveva arrangiarsi.

La chiesa ricostruita. La chiesa di Croce fu ricostruita un po’ più lunga da drìo [=cioè il presbiterio fu allungato], ma uguale. Quando nel 1923 la chiesa fu rimessa in piedi apparve esattamente com’era prima della guerra. In chiesa c’erano solo le panche per i bambini che venivano ingrumate a destra e a sinistra e che venivano usate quando si facevano le disamine [=la dottrina], c’erano le ragazze che facevano dottrina, come oggi. Le famiglie del centro, quelle più da vicino, si portavano sedie da case perché sapevano che non ce n’erano a sufficienza.
Le balaustre che delimitavano il presbiterio erano di legno. Fu sistemato anche un pulpito sulla sinistra. Non ci si sposava di Quaresima e di Avvento.

Lavoro in bonifica. Finita la III elementare, dal 1920 al 1932/33 andai a lavorare in bonifica a Millepertiche, a menare la carriola sui canali e a strappare la terra all’acqua. Un campo dava sei-sette quintali di pannocchie, non i venti-venticinque di oggi.

Case di Croce. Prima della ferrovia abbiamo detto che c’era l’osteria dei Longato che poi vendette e comprò in Calvecchia. Aveva ottenuto la licenza di Sali e tabacchi in quanto mutilato di guerra.
Passate le sbarre c’erano il cimitero e il cimitero militare, dove adesso son tornati a rifare quello nuovo. Non c’era la casa di Carlo Fregonese, c’era il Palazzo dell’Asilo
I bambini venivano a sagra a Croce, c’erano i carabinieri – le persone che contavano allora erano il prete, il dottore, il sindaco e i carabinieri. La Festa del Carmine, la sagra, era molto sentita, altro che la sagra di San Valentino.

Vicende di paese. Nel 1921 andai a vedere l’incidente che era successo sulla ferrovia; il treno si era ribaltato dall’altra parte, verso Musile. I Lessi e i Cancellier si arricchirono, si dice. Ma erano famiglie che stavano bene anche prima.
Nel 1923 tutti vennero a vedere il Duce che passava, i fascisti lo imponevano. Io l’avevo sentito dire dai miei fratelli maggiori.
Seguendo tutta la via Bellesine, la strada che arriva fin sul canale delle Millepertiche, di fronte del canale c’è una rampetta che va giù e là c’è una casetta: lì nel 1928 Attilio Guseo fece ’na ostarietta, un ‘casuin’ che vendeva pan e alimentari; poi la rilevò Angelo Furlanetto, e gli fu data la concessione perché anche lui era un mutilato di Guerra del ’15-’18, così come ai mutilati furono dati 2 campi in bonifica, la famosa bonifica dei Mutilati, in via Mutilati.

Al lavoro. Io e la mia famiglia andavamo a lavorare lungo la strada del Cristo, dove oggi c’è l’Essiccatoio a Millepertiche: poco prima dell’Agraria c’è una strada che va a Caposile, quella è la strada del Cristo perché alla fine della strada c’era un crocifisso, quello che poi sarà distrutto da uno dei nipoti di don Natale. La strada del Cristo divideva Croce da Musile. I terreni a est della strada (‘di qua’, sotto Musile), erano stati tirati a terra coltivabile ancora prima della guerra, quelli a ovest (‘di là’, sotto Croce) era ancora da bonificare, era tutto palù, era acqua. Là i ragazzi, i tosatioi, andavano a rane ma non c’era olio per friggerle, perciò si cucinavano sul fuoco, c’era tanta povertà. In casa Di Legui “el fumo de ’a poenta féa fadiga rivar ai travi che ’a poenta jera magnaa”.
Dopo la guerra la gente di Musile, il prete, portavano i filoni del pane alle famiglie più povere. ‘Di là’ della strada invece, sotto Croce, don Natale veniva quando poteva; poi il prete cominciò a mettere una chiesetta e la terra fu tirata agricola. Ma si seminavano solamente sorgo e avena, gli unici che potevano crescere.
Il terreno era tutto montine, la montina è il nome dato ai stecaroni, alle radici delle erbe e delle canne una volta che queste sono state raccolte; per ripristinare la terra si dava loro fuoco, le montine facevano fumo non fiamme, il fuoco moriva subito, anche se camminava. E camminando subito dopo per quei campi si affondava fino a mezza gamba nella cenere. Talvolta ci si scottava perché sotto la cenere covavano le braci. Tanti le cavavano invece e ne facevano pajeri. I Furlanetti avevano 10-15 campi e le raccoglievano tutte, come legna per far fuoco.
Per far la polenta occorreva l’acqua e c’era un’unica fontana a getto continuo alle Cascinelle, vi andavano tutte le donne, là c’era una panca buttata di traverso con un parapetto e là tutta le donne andavano a prendere l’acqua, era da Samassa, da Forcolin; c’è ancora la fontana. Un’altra fontana è qui dalle scuole della Fossetta che fu costruita quando furono costruite le scuole, una fontana con tubi profondi 150 metri e se ne servivano tutti [nel 2008 questa fontana butta ancora qualcosa]
A Millepertiche l’acqua se non si andava a prenderla da Samassa la si andava a prendere al canale delle Millepertiche: l’acqua era buona, non inquinata, perché non c’erano concimi, più del letame non c’era nulla, ma quello non finiva in acqua; l’acqua del canale era chiara, c’era pesce nei canali. L’acqua savéa da freschin perché c’era tanto pesce allora nei canali, ma tanto.

Militare. Quindi nel 1933 partii militare di leva: andai alla scuola centrale del Genio di Civitavecchia per 18 mesi, dall’8 marzo 1833 al 18 settembre 1934. Per tornare a casa ci mettevo un giorno e mezzo.
Tornai a casa e due mesi dopo fui richiamato per l’Abissinia. Andai a Napoli e mi imbarcai sul ‘Saturnia’ con altri 4500 militari. Di Croce ero l’unico, perché erano stati richiamati quelli del Genio. Quando furono chiamate anche le Salmerie allora da Croce vi fu anche Raimondo Carrer (nato nel 1907), il fratello di Renato. Da settembre 1934 al giorno di San Valentino (14 febbraio) del 1935 rimasi in Abissinia. Fu una guerra sporca, quella d’Abissina, la guerra di Mussolini. Gli Etiopi erano numerosi, ma erano peggio armati rispetto agli italiani; erano fortificati, bisognava andarli a cavare fuori dalle buche come i s-ciosi co l’ago da caraboi, ma erano armati poco; noi italiani avevamo i cannoni, loro erano armati dagli inglesi, con i fucili a binocolo e quando t’inquadravano nel mirino eri morto. Non c’era un fronte, il pericolo arrivava da tutte le parti. Di notte, mentre 400 di noi dormivano, gli altri 400 in cerchio ci proteggevano. Durante la breve guerra non ci furono grosse battaglie, ma rimangono nella memoria Macallè, l’Amba Aradam.
Feci anche 1200 chilometri di strada in camion, dal Lago Tana all’Asmara, per farmi operare di appendicite. Allora c’erano i camion che trasferivano i militari da un posto di blocco all’altro; c’erano le piste fatte dalle centurie e i camion facevano servizio per conto delle imprese. Ero sul Lago Tana. Là c’era una stazione, sulla strada diretta per Massaua, «qua ci sono dei militari che devono andare ad Axum» mi dissero; io fui ad Axum e assistetti all’asportazione del famoso obelisco che poi venne portato a Roma e installato a Porta Capena (e recentemente restituito). Da Adua ad Axum (tre case parte per parte) sono 30 chilometri, Adua era famosa dal disastro del 1896, quando l’Etiopia era stata occupata L’Eritrea fu occupata da … … e Baldisseri
In ferrovia fino ad Addis Abeba. Lì finalmente fui operato di appendicite.
Dopo venimmo dalla parte di Axum, verso il Mareb e il fiume Macsse, quasi secco dentro ci sono gli ippopotami, a saperlo attraversare si va.
Costruimmo prima un ponte con i pali in croce e facemmo l’attraversamento
Arrivai fino ad Acaie e al lago Tana.
Finita la guerra d’Abissinia mandarono a casa le truppe perché c’era la guerra di Spagna. O meglio: i fascisti furono mandati in Spagna, i militari invece furono trattenuti a lavorare a Massaua. Facevamo gli sbarchi di notte perché di giorno, sotto il casco c’erano 50-55 gradi.
Da lì venni a casa nel settembre 1937. Due anni giusti era rimasto a Massaua.
Dal ’37 al ’38 fui richiamato 3-4 volte.
Nel 1937 io fui mandato al Brennero per proteggere Dollfuss da Hitler che voleva annettere l’Austria. L’Italia ‘aveva un compromesso’, doveva proteggere l’Austria sconfitta nella I guerra. Fui tenuto lì tre o quattro mesi. C’era Hitler che “soffiava” forte [cioè alimentava venti di guerra]. Più volte io feci tre-quattro mesi al Brennero e poi tornai a casa.
Nel 1939 in Europa scoppiò la guerra.
I miei due fratelli erano uno in Sicilia e uno in Sardegna e siccome io era il più vicino a casa mandarono me a casa ‘per i tre fratelli’, una legge che imponeva di lasciare a casa il terzo fratello se già due erano sotto le armi. C’era Lucchetta da Meolo, segretario politico, che quando andai a firmare la licenza mi disse: «Potresti andare a Jesolo a prestare servizio volontario nella polizia costiera, a tenderghe ai cannoni». «Può andare lei, là» gli risposi io e Lucchetta mi guardò male, perché era fascista.
Mi lasciarono a casa per il momento.
In quegli anni il segretario comunale era Europeo (Rupèo) Montagner, un fascista dei peggiori. Era maledetto da tutti, nessuno poteva vederlo, alle ragazze cercava sempre di toccare le tette, aveva la mano lunga, sempre vestito di nero, con la bagolina. Oltre a Rupeo e Lucchetta, i fascisti erano Sforzin, Pétoea Agostinetto, squadristi di Musile, Antoniazzi era giovane e anche Baron.
Nel periodo in cui rimasi a casa mia morosa rimase incinta e feci le carte per sposarmi, ma fui richiamato: il giorno di Pasqua del 1940 Gusto Davanzo, il postino, mi consegnò la cartolina precetto che mi comandava la ‘partenza immediata’. Pur sapendo che mi mancavano solo cinque giorni per far le carte per sposarmi, Rupeo mi aveva fatto mandare la cartolina militare per partire. Io andai da Rupeo Montagner a chiedergli di dilazionare, il segretario però mi disse: «Intanto parti militare, e quando vieni a casa ti sposi».
Fui costretto a partire e gliela giurai, giurai che gli avrei sputato addosso se l’avessi trovato vivo al mio ritorno. Partito militare, andai dal mio capitano che fu più comprensivo e mi concesse la licenza matrimoniale di dodici giorni. Venni a casa per il matrimonio.

Il matrimonio. Don Natale volle prima impartirmi un po’ di dottrina dato che la mia istruzione religiosa era carente. Don Natale non permise che io e la Letizia [Striato] mia morosa ci sposassimo ‘se prima non suonava la campana dell’Ave Maria’ [=fummo costretti a sposarci la sera tardi perché lei era incinta].
Cosa demmo al parroco? Allora per il matrimonio si dava quello che si poteva. Era l’8 giugno 1940. A tavola, a festeggiare, c’erano otto richiamati che partirono il giorno dopo. Due giorni dopo, il 10 giugno, scoppiava la guerra. Dopo dieci giorni, finita la licenza, partii per San Pietro del Carso, come guardia di frontiera.
Il primo bombardamento dalle parti nostre fu a Mestre, furono i francesi a bombardare l’Agip, «Guarda che temporale», disse la Letizia, ma il tempo era bello. La guerra destava una preoccupazione enorme perché erano ancora nella memoria di tutti, negli occhi e negli orecchi, gli effetti della I Guerra Mondiale.

Dove sta (At)Tilio Tozzato, a Ca’ Malipiero, c’era un’ostarietta, era Magno (Montagner) il titolare, che poi vendette a Minetto e portò l’ostarietta alla Fossetta.
Durante la II guerra il Comune ci dava il sussidio, facevamo le spese al Casuin, da Minetto.
Tutto si pagava a uova: erano i Bolzan da Losson, i Tamai, anche da Passarella veniva qualcuno a prendere-comprare i vovi e li portavano a Venezia.
Solo i contadini potevano guadagnare qualcosa con i sotterfugi, con il mercato nero.
Nelle stalle non c’erano vetri, si mettevano i canoti. Ci si scaldava in stalla, chi aveva la stalla. La cucina si lavava coe mastèe, per terra c’erano pietre, che formavano un falsopiano perché si fondavano [=affondavano in maniera irregolare]. Le donne filavano, non con la lana ma col bombaso [=cotone].

Per alcuni mesi rimasi a San Pietro, poi il venerdì santo del 1941 entrammo in Yugoslavia, entrammo senza resistenza, solo in seguito vennero le battaglie, e ci furono più morti con i partigiani che al fronte. Perché la guerra coi partigiani era ancora più sporca della guerra d’Abissinia.
Nella II Guerra fui sui posti che erano stati teatro di cruente battaglie nella I Guerra: Cima Grande, Monte Calice, Grandi Ciari, Passo della Morte...

In Russia nell’ARMIR. Un tenente da Trieste mi disse «ti tocca andare in Russia». Quando rientrai a San Pietro un sergente maggiore mi disse «Vuoi venire con me» «Dove?» «In Russia» «In Russia?» «Se vieni via con me andiamo e torniamo», cioè il maggiore mi consigliava di seguirlo nel servizio delle tradotte; mi sarebbe convenuto seguirlo, altrimenti mi sarebbe toccato di partire ugualmente di lì a poco per il Fronte Russo.
Io feci quindi parte dell’VIII Armata in Russia, l’ARMIR. Ero del Genio, delle tradotte del Carso. Quaranta-cinquanta vagoni, di militari, di munizioni. Fui a Stalingrado dove c’erano 49,5 gradi sotto zero, sul Don, a Kiev in Ucraina, a Karcow, dove trovai Bellinaso da Musile, lui si congelò anche i piedi.
Nella famosa Sacca sul Don, a Trenta km da Karkow, tredici divisioni russe furono chiuse dai tedeschi. Gli italiani non parteciparono alle azioni delle ‘sacche’ perché impegnati altrove ma andarono anche a Stalingrado. Vidi la gente morire in piedi dal freddo. Era proprio come poi avrebbero detto i libri di storia: gli italiani erano andati alla guerra come cicale a combattere le formiche. Le divise italiane erano di panno mandato dall’Austria, che si bombavano di acqua e diventano di ghiaccio, i soldati dentro vi morivano imbalsamati.
Tredici viaggi feci avanti e indietro e mi salvai perché ero delle tradotte. Se fossi stato soldato al fronte sarei quasi sicuramente morto perché dei 230.000 lì impegnati solo 20.000 tornarono indietro.
Venti giorni prima che cominciasse la ritirata di Russia ritornai in Cecoslovacchia. Gli italiani dovettero montare il terzo binario perché solo così i treni italiani potevano girare per la Germania, dove lo scartamento dei binari era maggiore.
Nel 1943 i Tedeschi diventarono nemici e occuparono l’Italia. Io fu fatto prigioniero a San Pietro del Carso e portato a Berlino, a Spandau.

Prigioniero a Berlino. C’erano diciassette milioni di popolo in quel momento a Berlino. La fame era per tutti, ma i tedeschi erano rigorosi nel dare il cibo ai prigionieri.
Il mio gruppo per un periodo rimase tra i prigionieri di guerra. Poi diventammo ‘internati’ e lì ricevemmo il documento per circolare liberamente.
Io fu liberato dai Russi, che mi portarono in Polonia, a Katowice, a Trise. Sotto i Russi eravamo liberi, solo che eravano nella ‘Terra di nessuno’, c’erano 25 milioni ‘di popolo’ (di individui) nella ‘Terra di nessuno’, divisi per campi secondo la nazionalità.
Alle due di notte di un giorno di aprile venne avanti un corpo armato composto solo di donne, tutte donne: tenente, colonnello, generale, tutte donne, con carri armati grandi come case. E uno dei carri armati si staccò dal gruppo e venne nel campo dove erano gli italiani e l’ufficiale-donna chiese se qualcuno sapeva palare il russo; si fece avanti uno di Trieste che era stato diciotto anni in Russia e l’ufficiale-donna gli disse: «Voi rimarrete qui fino a domani mattina, tranquilli, perché noi stiamo facendo l’avanzata e stiamo tentando di liberare tutta Berlino».
I tedeschi si difesero porta per porta; morirono in casa, si può dire.
«Domani mattina arrivano i commissari del popolo» ci dissero.
I quali commissari arrivarono e dissero: «Qui ci sono magazzini, viveri… »
Appena fece chiaro, prima ancora di ricevere l’ordine noi italiani ci precipitammo nei magazzini dove trovammo casse di burro e margarina, sacchi di zucchero, farina; dopo mesi di penuria potemmo affondare i piedi dentro la margarina, lì c’era davvero di tutto, anche divise coloniali spagnole.
Tornai a casa il 16 ottobre ’45. Dopo la guerra le cose si calmarono, con l’avvento del primo sindaco (Giacchetto) poi i fascisti sparirono.

Di ritorno: don Natale e la chiesa. In chiesa non c’erano i pavimenti, c’erano le piastrelle, le balaustre di legno, l’organo appena entrati e un pulpito a sinistra. Don Ferruccio andava su a predicare, il vecchio no, non andava più su, era vecchio. A quei tempi c’erano i Missionari che andavano su sul pulpito. E mi ricordo la Madonna Pellegrina del 1948. Ormai vecchio, don Natale non saliva più sul pulpito a predicare: se ne stava appoggiato con la schiena all’altare con un fazzoletto in mano e biascicava le sue prediche che potevano udire solo quelli delle prime file. Gli altri sì e no che avessero idea di quello che aveva detto. Era povero, pativa di suo tanta povertà che non poteva far molto per gli altri. Aveva il cavallo, col quale i parenti lo accompagnavano a far messa a Ca’ Malipiero. Qualcuno gli dava un po’ di fieno per mantenere il cavallo. Allora si pagava il quartese: Don Natale avrebbe dovuto ‘tirare’ il 2% del racconto, dell’uva ogni cento grappoli due erano per lui, ogni cento pannocchie due erano per lui, ma i contadini non rispettavano i patti, ne approfittavano, gli davano un piatto di formento scarso, un po’ di uva cruda, gliela buttavano su’a tina [=tino]. Don Natale era comunque contento di quello che gli davano. Invece don Tisato si procurava camion e rimorchi di quartese. Don Natale viveva ormai da povero. Nel 1955 andarono elemosinando per il paese per fargli il funerale. Poi sparì tanta roba, sia dalla chiesa di Croce che dalla chiesetta di Ca’ Malipiero.

I ricconi del paese. Ca’ Malipiero era proprietà di un Carmine di Treviso. Dei terreni più in là il proprietario era un padovano. E più avanti c’era la Contessa Prina che aveva fatto la bonifica Caneara, terra che fu data ai Mutilati, 10 campi (= 5 ettari) per ciascuno. Qui dove abitiamo io e mia moglie la proprietaria era la contessa Gradenigo, che aveva sposato il colonnello Gioia, il quale nel testamento aveva lasciato i terreni in eredità all’Eca e la moglie usufruttuaria fino alla morte. Il colonnello nel frattempo aveva comprato anche 50 campi in Caneara, dove aveva una serva ‘che adoperava a modo suo’ e alla quale li lasciò quando morì. Il colonnello Gioia era un militare in tutto e per tutto, nei modi e nel vestire. La villa dove abitava era già esistente prima che arrivasse lui, era stata fatta dai Gradenigo prima della guerra 15-18. Il colonnello ne entrò in possesso sposando la Contessa Gradenigo; la villa la fece solo restaurare. I nobili abitavano al piano nobile, che era alto. Perciò avevano sempre freddo. Le contesse avevano lo scaldino per scaldarsi sotto le cottole. La contessa Gradenigo era parente del conte Gradenigo, proprietario della Case Bianche. La Rachele Sacerdoti era di Meolo. L’odierna azienda Criveller era di proprietà della contessa Bevilacqua; sotto la sua proprietà c’erano anche la Casera e le Bellesine, con i Turchetto e le altre famiglie (……) Suo cognato il barone Manfredi comandava da qua a Fossalta, 1000 campi.

Ricordi più recenti. Durante l’alluvione del 1966 gli sciacalli si diedero da fare: ogni sera ne veniva fermato qualcuno.

Nel 1987 lavorai a sistemare la chiesetta di Ca’ Malipiero. Mi ho stabiìo l’esterno e il retro-altare [=la sacrestia]. Ho fatto diversi lavori per la chiesetta.

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