Abitavamo allora in due o tre casoni. A quel tempo da queste parti (Casebianche) era per la più parte casoni. I Muccelli erano bravi costruttori di casoni, andavano a far su strame… In seguito vennero le baracche, ma i nostri vecchi dormivano sotto i casoni.
Dottore a Croce e Musile era Stocchino [fino al 1924]. Avendo sposato
la contessa, Stocchino era diventato padrone di tutte le terre in bonifica,
poi mise i “manufatti” [le idrovore] e un po’ alla volta le fece prosciugare
Noi eravamo 4 maschi e 4 femmine (una morì subito): la Carolina, la Betta, la Jija,
Giovanni del 1909, io del 1912, Marino del 1916, la Sunta dell’ottobre 1917
che morì dal freddo, a tre giorni, alle Porte [le Porte Grandi del Sil = Portegrandi], poi dopo la guerra nacquero Enrico (1919) e la Marcella.
Nell’ottobre 1917 dovemmo partire profughi di guerra. Mollarono l’acqua [fu rotto uno dei manufatti]. Mia madre era incinta al nono mese.
Mio poro barba Cencio e l’altro suo amico venivano su per lo stradone, non c’era allora strada, arrivarono fin da Bincoletto e
trovarono un ufficiale che gli chiese dove andavano e li invitò ad andare via subito
ché c’erano i tedeschi di là del Piave. Mio barba Cencio e il suo amico tornarono indietro,
la famiglia caricò tutto il possibile sui 4 carri che avevamo, tirati dalle bestie,
e andammo verso le Porte[grandi], dove tutto era proprietà di Camarotto. Rimanemmo lì tre giorni. Tutto ci fu requisito, carri e bestiame, niente più da mettere indosso. Lì morì la Sunta, di freddo. Dalle Porte andammo a Mestre in treno. A Mestre rimanemmo due giorni per fare carte. Avevo due zii via militare. Mio padre doveva operarsi un’ernia e così, grazie alle conoscenze degli zii, poté rimanere a casa. Poi ricevemmo la destinazione che era Ascoli Sartiano in provincia di Foggia, due giorni di viaggio e finimmo a vivere dentro un magazzino dove stavano altre due o tre famiglie, un magazzino per le bestie e il foraggio.
L’acqua rimase da queste parti fino alla fine della guerra
Al ritorno da Foggia noi abitavamo dove adesso abita Berti, in via Casebianche. Lasciammo
i casoni quando ci lasciarono costruire la casa qui dietro, nel 1922; io avevo dieci anni. Il Cavalier
Cuppini fece in modo che prendessimo la casa e la terra. Noi Bortoletto che avevamo soldi
andammo in affitto; altri andarono a parte [mezzadri].
La vita da bocie non aveva nessun divertimento e a dieci anni cominciai ad andare via coi vecchi, a tagliare erba. Prima dei dieci anni i bambini non andavano per i campi ma si andava dietro alle bestie, bisognava raccogliere la buazza e il pisarot dentro la cisterna. In genere si preferiva andar dietro ai campi piuttosto che dietro alle bestie.
Noi avevamo 20 capi tra buoi, vacche da latte, vitelli, maiali (anche 4 alla volta). Il pollame era lasciato libero, anche 100 capi. E poi avevamo un cane da guardia, e mi ricordo che pagavamo la tassa sul cane.
Questa casa la costruì Perissinotto che era un bravo muratore da Fossalta; con lui studiarono tutti i Fregonese che divennero muratori.
A costruire una casa ci si metteva una vita una volta, perché non si trovavano le pietre. Poi Camarotto avrebbe messo in piedi le fabbriche di mattoni e allora sarebbe diventato più facile trovare i mattoni.
Nei casoni rimase un altro Bortoletto.
Don Natale aveva fatto mettere una baracca [nel 1922-23] e veniva a dire messa e dottrina, veniva col cavallo e il biroccio a quattro ruote, c’erano due chierichetti durante la messa, uno per parte. La baracca-chiesa aveva la sacrestia, dove lui si vestiva o dove teneva il vino per la messa. Dentro in chiesa c’era un quadro con un santo che quand’era la sua festa si faceva la cuccagna. Mi pare di ricordare che il santo fosse san Bovo.
Santo e Augusto Bassetto ci insegnavano la dottrina.
Mi ricordo poi quando don Natale veniva per le Rogazioni.
Noi andavamo a messa a Croce facendo la strada Morosina. Tre chilometri di strada erano, e quando c’era fango ci tenevamo le scarpe in mano, andavamo via con gli zoccoli, poi lasciavamo gli zoccoli fuori della chiesa e ci mettevamo le scarpe
In Chiesa c’erano il pulpito e la “tina”. C’erano già i banchi su tutta la chiesa, ma c’erano poche sedie: si stava in piedi o in ginocchio.
Don Natale era un bravo prete, intelligente. Andai una volta a chiedere una benedizione perché le bestie non mangiavano, tornai a casa che mangiavano, volevo fare un’offerta e lui mi disse: «Vai in chiesa e dai quello che vuoi…» e io andai.
Mi ricordo quando veniva col catafalco nero a prendere il morto. La cassa si comprava a San Donà,
da Bustreo. I morti rimanevano in casa fino al momento del funerale. In occasione del funerale i bambini erano tutti vestiti
di bianco, a ognuno di loro veniva data una candela.
Si faceva la pinza a gennaio e la focaccia a Pasqua, c’era sempre la legna
sul fogher grando. Gli uomini stavano seduti a tavola, le donne sedute tutte attorno,
non c’era posto per tutti attorno alla tavola, e i bambini mangiavano seduti lungo la scala.
Ma poi il prete di Musile si accorse che quello di Croce aveva troppa terra
e protestò in Comune. Perché i preti vivevano di quartese e don Tisato ne aveva meno. Don Tisato
era di Noventa.
Il confine poi [nel 1924] divenne: da Bortoletto in su Musile, di là Croce.
Quando la baracca-chiesa alla Casebianche fu demolita il quadro di San Bovo tornò a Croce.
Eravamo 4 coloni a lavorare la terra che ci aveva dato Cuppini.
Noi portavamo col carro-bestiame il raccolto all’Agenzia Cuppini. Portavamo tutto il nostro grano, era Nesto Furlanetto il fattore di Cuppini (e prima c’era stato suo fratello Spedito) e lui pesava tutto il grano e metà finiva nel nostro recipiente e metà ci toccava portarlo, toccava a noi, portarlo su in cima nel granaio.
Cuppini mandava Nesto dappertutto. Prima di Nesto c’era stato Spedito, che poi aveva preso delle campagne da lavorare. Erano studiati entrambi, Spedito e Nesto. Spedito era sotto padrone ma in pratica governava lui.
Prima prendemmo la campagna in affitto, poi andammo a parte [cioè a mezzadria] perché la terra fu venduta all’ingegner Aldo Cini, il nuovo padrone “che ci comandava”, uno che aveva fatto studiare il figlio che poi divenne anche un dirigente delle Ferrovie dello Stato. Follador faceva da fattore per Cini, teneva la contabilità. Perissinotto era (sotto)fattore da noi.
Bimbi (1934-39) non era cattivo, no.
A proposito di vigili: Bepo Bellese aveva perso un braccio perché andava a rompere bombe
coi fratelli e una esplose e a lui portò via il braccio, al fratello il naso.
Tacco, il vigile che venne dopo, era un fascistone.
I nostri ce l’avevano coi tedeschi dalla I guerra Mondiale. Ma cosa si era
pensato Mussolini di allearsi ai Tedeschi?!
Durante la II guerra mondiale feci solo dodici mesi di addestramento, anziché 18, perché avevo già fatto il premilitare. Tornai a casa due mesi, poi mi chiamarono a Palmanova, dove rimasi 12 giorni; poi di nuovo a casa per un altro mese, poi altri due mesi a Palmanova. Avrei dovuto partire per la Croazia, nell’Artiglieria, ma mi recai con mio padre dal professor Girardi. Mi ero grattato la fronte con le mani fino a provocarmi un’escoriazione. E il Dottor Girardi mi mise una benda (una “pezza”) sulla fronte e così fui destinato altrove. Il giorno dopo andai a Pisa, a fare il guardacoste, e feci tutta la guerra lì, nel IV Artiglieria Costiera.
Venni a casa qualche volta durante il militare, una volta anche 15 gioni in licenza in occasione del raccolto, sceglievo sempre la linea secondaria: Lucca, Pistoia, Prato Bologna.
Nel 1943, alla caduta del Fascismo, arrivò l’ordine del “Tutti a casa”, una signora
dello Spaccio a Migliorino (dopo Pisa mi ero spostato a Migliorino, e poi a Zonfaro) ci disse
che dovevamo presentarci al comando; le dissi che prima sarei passato per casa; avevo mantenuto
la divisa, ma poi mi dissero di toglierla e io rimasi in mutande (che però erano come braghette)
e maglietta.
Vedevo armi, carri abbandonati lungo la strada.
Me la feci a piedi da Pisa fino a Mestre.
I miei compagni volevano arrivare fin dentro Mestre. Io invece mi fermai un poco prima
e rimasi in attesa. A Mestre trovai un compagno che veniva a casa “per i quattro figli”. Era più esperto
di me e sembrava saper come si dovesse fare. Io stetti appresso a lui, mi nascosi sul treno
un poco prima di Mestre, così quando passò per Mestre noi eravamo già sul treno, belli nascosti.
Un sacco di gente tentava di salire sul treno e veniva tirata giù con le cattive lungo il marciapiedi
della stazione. A San Donà scesi, il mio compagno voleva andare a casa a prendere una bicicletta
per prestarmela, ma rifiutai perché ormai ero vicino, mi dissero che sul ponte c’erano le guardie
che segnalavano i soldati sbandati, avevano quell’ordine, per fortuna erano persone che conoscevo
e non mi fu difficile indurli a lasciarmi passare.
Arrivai a casa e trovai mio fratello Giovanni che era giunto da dieci giorni, dalla Croazia.
Per non essere rimandato al fronte o in Germania andai a lavorare per i tedeschi, per la TODT.
Rizzola aveva il comando a Chiesanuova ma io non mi presentai. C’erano due repubblichini
che giravano per il paese, io mi feci alleato con loro. Andavo a prendere la legna col carro
per costruire i camminamenti, per far vedere che ero in movimento, che avevo un incarico.
Io e mio zio Augusto ricevemmo una campagna. Mio zio non volle muoversi da qua
e allora toccò a me trasferirmi presso l’Agenzia, che era l’ultima casa di via Casebianche.
Nell’Agenzia delle Case Bianche vivevano anche gli Sforzin, erano tre fratelli, Basilio, Berto e Nando
(ma Berto si era già trasferito).
Dopo la guerra guadagnavo 18 lire ogni due settimane
Nel 1947, quando Berto Sforzin morì, mi ricordo che era appena stato da me per dirmi
che andava a lavarsi e poi si annegò.
Non è la prima volta che mi intervistano, mi aveva intervistato
già una volta Postoét da Caposile, ma morì all’improvviso,
lo trovai in ospedale a Treviso che io rimasi lì solo due giorni
e lui “ci rimase” per sempre. Chiedi a tuo padre di Postoét.
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