Sono nato nel 1908 nella casa dietro la chiesa, dove abitavano gli Sgnaolin [La famosa Ca’ da Lezze, ndC.].
Feci in tempo a frequentare la classe prima con la maestra Berton prima
che scoppiasse la guerra. Aveva un bel modo di fare. Mi ricordo che un giorno tossii e lei,
con la massima dolcezza, mi disse: «Caro, si mette la mano davanti alla bocca quando si tossisce»
e mi diede una carezza.
I soldati passavano di qua a prendere il vino, mi davano zinque franchi, avevo fatto
su un po’ di moneta.
Durante la I guerra mondiale il sindaco dava la notizia dei morti e dopo andava
il prete a consolare la famiglia.
Nel 1917 Il Comune avvisò che c’era stata Caporetto. Da Meolo si vedevano i fuochi sul Piave.
Partimmo da Meolo con un carro bestiame.
Capitò che mio padre, e i vecchi, in attesa della partenza, andarono con la brocca
a comprare un po’ di vino,
e il treno partì e loro lo persero; allora andarono a protestare dal capostazione
che disse loro: «Tranquilli, che arriverete prima di loro...»
Nel vagone gli uomini con un po’ di pietre fecero una specie di cucina. Otto giorni durò il viaggio.
Dovevamo andare profughi a Napoli, ma poi mia zia ebbe le doglie e ci mandarono indietro,
a Benevento, e lì rimanemmo.
Nel 1918 ci fu la Battaglia del Solstizio:
al Sile ruppero gli Austriaci... C’erano i Bersaglieri a Caposile, lottavano corpo a corpo coi pugnali,
uno in bocca e uno in mano.
La guerra è tutto da rimetterci e niente da guadagnare.
Dopo la guerra, al nostro ritorno da Benevento, i campi erano pieni di granate.
Il fratello di Vittorio di Roder togliendo la corona di rame per venderla
e guadagnare qualcosa si mise a battere su questa bomba e di lui
non rimasero che briciole [Evento accaduto in realtà nel 1950, NdC.]
Dopo la guerra c’era una baracca, una di quelle grandi, con due stanze, davanti al campanile.
Eravamo in sacrestia nella baracca che faceva anche da chiesa
(dopo fu portata in spiaggia perché fungesse da chiesa là),
un giorno che don Natale era in sacrestia che si stava vestendo, e io ero là, o zaghetto o per cantare,
entrarono Giovanni Pitana e suo fratello e Amadeo Fregonese, gente che era fuorilegge
e che non avrebbe dovuto permettersi di entrare in sacrestia: lui li cacciò.
Durante la messa loro entrarono lo stesso, forse per sfidare il prete.
Don Natale non disse nulla ma temetti che mandasse loro una maledizione.
Dopo la guerra avrei voluto tornare a scuola ma mio padre mi disse: «Dove vutu ndar,
fiol mio, ché qua é tut da tirar su».
Dopo la I guerra mondiale Alessio Maschio aprì la sua rivendita, noi ragazzi gli davano
una mano a spingere il carretto e lui ci ripagava magari con una caroba (=carruba).
Il palazzo era stato comprato [in realtà costruito, NdC.] dal Comune
per farne, dopo la guerra (la I Guerra Mondiale), una sede distaccata del Comune:
vennero qualche volta dei funzionari da Musile a tenere degli uffici, perché la gente
di Croce potesse essere comoda, ma il servizio durò solo per un periodo.
Il dottore continuò a restare nel palazzo dell’asilo... anche dopo arrivate le suore...
e per un periodo ci andò a vivere Ciano Mariuzzo, che, venduta la campagna
aveva bisogno di una casa, faceva il nonzolo.
Don Luigi, quando io ero di 14 anni (nel ’22) mi ha preso su a cantare:
andavamo nella baracca nel brollo del prete a far le prove.
Durante le prove di canto della corale don Natale chiamava Nano Campanaraon
e gli diceva: «Nando, Nando... Va, va cior un fiasco». Anche Nano dirigeva il coro.
I Fornasier stavano da Torresan e poi andarono [nel 1923, ndC.] in una baracca vicino all’argine.
Nel 1923, a proposito della guerra della Case bianche, don Natale disse in chiesa:
«Il confine è là da Roncaglia».
Don Luigi Pasqualetto: un uomo, serio, ci teneva alla disciplina, al costume,
anche don Natale in verità... non si scherzava con don Natale.
Attilio Guseo invece scherzava.
Io e la mia famiglia siamo venuti ad abitare qua tra i due argini nel 1927,
qui abitava Ambrosin che non andava d’accordo con Aurelio Agostinet che stava pure qua
e faceva “el carrer”, costruiva carri, il cui figlio andò in seguito
a lavorare alla macchinetta (=idrovora).
Innocente Ambrosin aveva la casa sul canton, la via (=la in fondo), darente Bergamo;
gli Ambrosin dopo la guerra (la I) costruirono la casa lì, vicino all’Argine, “Sant’Antonio”
chiamarono la casa, e lì andarono a vivere in due, Federico e Basilio; Innocente
invece lo misero qui, andò avanti un periodo di tempo, ma poi i ragazzi buttarono
malamente e lo mandarono via e chiesero a noi di venire qua, la nostra colonna di Sgnaolin
che abitavamo vicino dietro la canonica vecchia, quattro fratelli e cinque sorelle.
E son restà qua mi sol... Che vita... che vita...
E quando son venuti i divertimenti non ci andavamo neanche, al ballo; la prima bici
fu una bici usata, nel 1935; spendemmo 300 franchi (=lire) per comprarla, ma eravamo in quattro e
ci toccava una volta al mese, altrimenti andavamo sempre a piedi; certo
andavamo in giro, ma andavamo sempre a piedi: quando ho trovato la morosa a Capodargine
andavo a trovarla sempre a piedi, a volte andavo via scavazzacampi.
I soldi, i soldi se li tenevano loro, i paroni.
Quando veniva il fattor per i campi ci inchinavamo «Servitor suo sior paron», ed era solo un fattor...
Eravamo ignoranti. Il padrone l’avremo visto sì no una volta l’anno.
Il padrone era il barone Manfredi, dall’Abruzzo, che sposò una vedova e comprò tutte le terre
qua intorno, 300 e tanti campi. Vén passà na vita...
Don Francesco [non risultano cappellani con questo nome, NdC., alla sagra, davanti all’asilo dove c’era la balladora: «Maledetto il ballo, Dio maledica il ballo…» Era alto magro, non andava d’accordo con don Natale
Era fatica andar d’accordo con don Natale, perché era severo.
Don Virginio Quaggiotto era un tipo mite, quieto, bravo... bravo...
Di don Antonio Calierin [=Callegarin], venuto dopo, mi ricordo.
Il cimitero, quello di là [quello militare, ndC.] andò in decadenza...
trascurato, non c’entra la faccenda della falda.
Il barone Manfredi o il Comune dissero di levarlo.
Adesso son tornati a costruirlo.
Mi ricordo di don Giovanni Basso ma non mi ricordo di don Luigi Bosco.
Anche per Croce passavano i fascisti, soprattutto per la Triestina.
C’erano anche partigiani a Croce: padre e 6-7 figli... facevano per conto loro.
Fascisti ce n’erano: un po’ alla volta tutti erano diventati fascisti, bisognava votare o sì o sì…
Il clima era pessimo: olio da macchine e manganello. Mi ricordo me poro missier (suocero):
una sera erano andati a Cavarzere (=Capo d’Argine), lui e mio cugino che abitavano
da quelle parti. Passò un camion di fascisti e mio cugino urlò loro: «Dove andate,
nati d’un cane di briganti...» Saltarono giù e volevano menarlo. Intervenne il mio poro
missier: «No, ste boni, ha detto: “dove andate, ragazzi...”» Con loro non si scherzava.
I fascisti andavano a fare i gradassi sempre in altri paesi.
Mi ricordo lo sciopero di Attilio Guseo [siamo nel 1940, NdC.], perché
don Natale se ne intendeva anche lui di musica, guardava la virgola; solo Basilio Sforzin
non scioperò e don Natale disse durante la predica: «questo è un uomo... che non ha fatto sciopero».
Le prediche di don Natale non toccavano mai temi politici.
Don Ferruccio invece era uno che si faceva meraviglia di tante cose e si lasciava andare a giudizi netti.
Dopo Arduino venne il dottor Da Re, da Fossalta, che andava anche per le case.
Nel 1945 venimmo a sapere subito della morte del Duce: quando si andava in chiesa si veniva a sapere...
Eravamo chiesa e campi, chiesa e campi. I preti ci hanno fatto fare una vita
peggio che ai sorci il gatto.
Sui campi si faceva tutto a braccio.
Mi son sempre stat un bauc parché no son ndat a scuoea, son sempre stat pai campi.
Don Mario Paccagnan... me lo ricordo: quieto.
Nel ’46 arrivarono don Ferruccio e le Suore.
Se don Natale aveva una perpetua? Sì, mi ricordo che ne aveva una
che mi diceva: «Antonio Antonio, ti do un regalo»: era una canevazza.
In canonica c’era la Neta (Anna, Annetta), sorella di don Nadal, gli dava una mano.
Poi ci fu una coppia.
Quando avevamo bisogno della benedizione, dopo messa,
vanti vegner casa, stando là, ce la dava. Don Natale era sempre vestito con la tonaca
e il treponte (=il cappello).
Via del Bosco è sempre stata così, dopo le sbarre, in ultima,
dopo Toresan (=Danieli), dopo Presot (=Zanusso), dietro Perissinotto, stavano Toni e Jijo Jet (=Orlando).
Via del Bosco si gettava sulla stradone che poi, nel ’24, divenne la Triestina.
Quanta jera, se ghe déa peàe...
Successe che qualcuno voleva sposarsi in chiesa, e non poté farlo
perché don Ferruccio non voleva, dato che non sapevano le orazioni: «Dovete andare dal vescovo,
lui solo può stabilire se posso sposarvi».
Prima di andare dal vescovo loro passavano da don Natale, molto più comprensivo: «Ben... ben... ben...
Porteme un poche de bietoe pa ’a vaca... fae mi, fae mi...»
Aveva una vacca, un porzel nello stavoeo in testa de ’a canonica e aveva o si prendeva
sempre qualcuno che andava a fare i mestieri, oppure andava per le case a chiedere.
Andava in giro col carretto. Una volta si è anche rabaltato col carretto.
Ma mangiava male. Le nipoti cucinavano male, patate con acqua dentro.
Quando don Natale morì non gli trovarono un franco: era nudo di tutto, neanche un abito.
La vocazione di don Natale era vera, a differenza di quella di don Ferruccio
che da bambino era lì sul campo che’l tegnea e bestie par davanti,
e ’l à ciapà un strapon. Né un né do, ’l é andà da so pare:
«Mi vae via, mi vae prete».
Diséa sempre el me poro pupà: «Ciacoe dei siori e soldi dei poreti...»
I siori parla e parla, ma chi paga é sempre i poreti. Anca adess a Roma, ladri, tuti ladri...
[lunga invettiva contro el fiol d’un can de Berlusconi: quel là, se’l vien fora, i lo mete in gaèra...
chelà ’l à da ver robà anca al Signor. A quei de a so parte mi ghe dise: Ciapè Berlusconi, mandéo casa
e vedaré che’l vostro partito vinzarà ’e elezion.]
Le guerre sono fatte par causa de’e reigion.
Me fradel Narciso ndea a lavorar da Bepi Magagnin che el vea un fiol prete,
che diceva: «L’odio più grande sulla terra è quello tra preti».
Quando andavo a San Donà a cantare nel coro venni a sapere che don Saretta aveva due figli,
tutti e due studiati, e tutti e due in banca.
Il prete, quello che fa, non deve essere scoperto neanche dalle mosche,
altrimenti la religione va in zo.
Don Natale faceva tanta carità ai poveri. ’A mama de’a femena (=mia suocera) andò da lui
perché non avevano niente: «Sior piovan...» E lui le diede cinque franchi che si
comprasse una bottiglia di... che allora faceva anche da medicina.
Faceva sempre carità. E in chiesa dava l’esempio: lui sull’altare in ginocchio
si fermava, tirava fuori un sacchettino dalla tasca, ne toglieva lo spago,
e per primo faceva elemosina, per dare l’esempio a tutti.
Parla la nuora: Don Natale dava anche delle benedizioni. Mio papà disse che
la uia mangiava i majalini e quando andarono a chiedergli una benedizione lui disse
loro: «Andate a casa tranquilli, andate a casa». Andarono a casa e non succedeva più,
era tutto a posto. Oppure accadeva che le tarme mangiavano il soturco:
«Non si può ucciderle, l’é creature de Dio anche quelle» diceva,
«mandatele in un angolo... Lasciate da parte un po’ di roba per loro». E così accadeva.
Riprende la parola Toni: sì, mi ricordo l’episodio dei cavalieri.
«Ah sì.. va, va, va via via...» mi disse. Bisogna che facciano un gran penitenza quelli
che fanno queste benedizioni.
Era buono, ma asseo star: era slavo, lui.
In ultima andava col biroccio per le beccherie e gli davano quello che rimaneva,
mangiava di tutto aveva ormai perso il palato.
Quando andava per le case a portare la benedizione, chiedeva una zucca, una bietola
per la vacca che aveva in stalla. Le sue sì che erano benedizioni: faceva tutto il giro, della tieda, della stalla
e poi entrava in casa… Altro che quello di oggi, che in due minuti entra, benedice
e scappa via: che benedizioni vuoi che siano quelle!
Si dice che le benedizioni attraversano sette muri, e con quelle che prendiamo
a messa dovremmo essere a posto...
Toni Sgnaolin è morto nel luglio 2011 all’età di 103 anni.
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