La grande guerraGuerra! Il 28 giugno 1914 uno studente serbo uccise a Sarajevo l’erede al trono imperiale Francesco Ferdinando e la moglie, e l’Austria ne approfittò per lanciare un ultimatum alla Serbia perché entro 48 ore reprimesse tutti i Movimenti contro l’impero; il ministro degli Esteri italiano San Giuliano scrisse agli ambasciatori italiani a Vienna e Berlino che l’Italia non avrebbe avuto obbligo di intervento se l’Austria avesse dichiarato guerra, dato il carattere difensivo della Triplice Alleanza. La Russia si schierò al fianco della Serbia, il 28 luglio l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, la Germania lanciò ultimatum alla Russia e alla Francia e dichiarò guerra alla Russia, Vittorio Emanuele III spiegò in un telegramma al Kaiser Guglielmo II i motivi per cui l’Italia si sarebbe adoperata per la pace, facendo gli auguri più cordiali a lui e alla Germania, il Kaiser bollò come menzognere e impudenti tali affermazioni, e dichiarò guerra alla Francia, con l’intenzione di far varcare alle proprie truppe i confini del Belgio, che pure aveva negato il passaggio; all’ultimatum britannico di rispettare la neutralità del Belgio il Cancelliere tedesco dichiarava «I trattati non sono che pezzi di carta», segnando l’ingresso in guerra della Gran Bretagna contro la Germania. Abbandoniamo il dòmino europeo delle dichiarazioni di guerra e torniamo a Croce dove si stavano svolgendo gli esami di III elementare: a tenerli, in luglio a Musile e in agosto a Croce, venne da Portogruaro il maestro Antonio Capitanio: lo apprendiamo da una richiesta di rimborso spese trasporto e diaria al Comune. La maestra Santina Berton alla fine dell’anno scolastico riceveva lire 20 per la pulizia delle scuole. Il 9 agosto, in una lettera “segretissima” al presidente del Consiglio Salandra, il ministro degli Esteri San Giuliano ipotizzava l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa solo “quando si avrà certezza di vittoria”. Questo era un ragionar da intelligenti! Il compenso dell’Italia sarebbe stato il Trentino. Più intelligente ancora sarebbe stato pensare alla pace. Come se presentisse l’arrivo della catastrofe, il 20 agosto morì Papa Pio X: un grave cordoglio colpì la cattolicità intera, e in particolare le diocesi di Treviso e Venezia. Sincero fu il cordoglio che don Natale comunicò durante la messa ai parrocchiani. Il 5 settembre saliva al soglio Benedetto XV, Giacomo della Chiesa. Il 20 settembre gli interventisti democratici dimostrarono a favore della guerra, il giorno dopo, su indirizzo di Mussolini, i socialisti approvarono un manifesto contro la guerra e l’Osservatore romano scriveva: “Noi cattolici siamo per la neutralità e crediamo che sia un delitto contro la Patria quello di gonfiare la portata degli interessi italiani che possono essere danneggiati, solo per spingere il Paese in avventure dalle quali non potrebbe ritrarre che sventure nuove e nuove rovine”. Il generale Cadorna sollecitava il Presidente del consiglio Salandra a rinviare l’entrata in guerra dell’Italia perché l’esercito non era in condizioni favorevoli. Nell’anno scolastico 1914-15 non c’erano più le maestre Vianello,
sostituite dalla Simionato Anna (non sarà mica la sorella di don Natale?) e dalla Guidi (?) Maria;
c’erano sempre la Santina Berton a Croce e la Ada Valle alla Fossetta.
Il 12 settembre Cesare Battisti pronunciava un discorso a Torino, riportato il giorno seguente
sulla Stampa: «Il Trentino è baluardo naturale dell’Italia. Il Trentino ha 14 porte verso l’Italia
e solo una verso l’Austria. Noi vogliamo murata la porticina e aperte le 14 porte che danno nel giardino d’Europa.
Così Trieste. È il porto del Levante. È il porto naturale delle terre liberate dal giogo turco,
i nuovi granai d’Europa. D’altra parte se anche Trento e Trieste avessero da perderci che importa?
Se anche Trieste dovesse divenire un nido di pescatori, lo divenga pure, ma unita all’Italia...»
Fu un peccato che nessuno gli dicesse che avrebbe potuto dedicarsi alla scrittura di romanzi gialli.
L’edicola per la tomba di famiglia di don Natale giungeva a compimento. Moriva il ministro San Giuliano e Salandra assumeva l’interim degli Esteri. Il 25 ottobre il paroco portò altri 59 bambini a cresimare a San Donà. Lo stesso giorno il Comune diede mandato di pagare 350 lire a Vendraminetto Regina per il fitto di scuola e alloggio per la maestra alla Fossetta relativo all’anno scolastico appena trascorso; e di pagare alla fabbriceria di Croce 120 lire “per il trasporto di cadaveri con la bara” nel 1914. Per bara si deve intende il carro funebre? La parrocchia di Croce doveva essere tra le più benestanti se poteva permettersi un carro funebre. Due giorni dopo venne in canonica monsignor Carlo Carminati a ispezionare i registri parrocchiali.
Il 31 ottobre Salandra si dimetteva in contrasto col ministro del Tesoro sfavorevole alle ingenti spese militari,
ma il re gli affidava un nuovo incarico. Il 1° novembre papa Benedetto emanava l’enciclica
Ad Beatissumi Apostolorum Principis Cathedram, contro la guerra.
Il 20 novembre, sul Registro dei Morti, in costa alla registrazione della morte del padre, don Natale scrisse con penna rossa: Nota. Li 20 (venti) Novembre 1914, ore 3 pomeridiane, venne fatta l’esumazione della Salma,
e deposta nella tomba di famiglia in questo cimitero alla presenza del Paroco Simionato.
Case di Croce prima della guerra
1915.
Abbandoniamo il balletto della diplomazia italiana e del governo Salandra con l’Intesa e con l’Alleanza,
prendiamo atto dell’ordine dato i prefetti di vietare manifestazioni che mettessero in pericolo l’ordine pubblico,
ossia quelle neutraliste, e delle prove evidenti dell’impreparazione italiana alla guerra
(il ritardo nei soccorsi dopo il terremoto in Abruzzo ad Avezzano in provincia dell’Aquila, con 33.000 morti)
e pensiamo ai soldati del Comune: la leva militare arruolata nel 1915, ossia i nati nel 1895,
era costituita da 56 ragazzi: 2 erano calzolai (Giuseppe Cadamuro e Giorgio Muccelli),
uno era fabbro (Luigi Umberto Bozzo), due i falegnami (Giovanni Alfier e Giovanni Fuser) un sarto (Giuseppe Salmasi)
e due erano studenti (Giovanni Baron e Angelo Bizzaro). Gli altri erano contadini:
numeri che non lasciavano intuire un aumento di istruzione generale: su 56, ben 26 firmarono con la croce.
Un cooperatore recriminante e verbosoIn estate giunse a Croce come cooperatore don Luigi Susan, che si era lasciato convincere dai superiori
ad accettare il trasferimento da San Donà con l’argomento che i redditi della parrocchia di Croce erano buoni
anche per il cappellano. Don Susan non era avido, tuttavia aveva alcuni debiti che desiderava
appianare.
Poiché la questione era delicata la Curia l’avocò a sé e il vicario foraneo, in dubbio sul da farsi, fu ben lieto di cedere la patata bollente:
Le decisioni (o non decisioni) della Curia non lasciarono soddisfatto don Susan: qualche giorno dopo egli scrisse una lettera-fiume in cui diceva e contraddiceva, rivendicava i proventi in quanto cooperatore avendo invece specificato al vicario foraneo d’essere “ospite”, lamentava d’essere stato insultato come “pieno di debiti” confessando però di averli, dichiarava di non voler fare i conti in tasca al suo parroco stilando un resoconto economico delle entrate della parrocchia interessantissimo per stabilire l’ordine di grandezza delle cifre e degli introiti della parrocchia di Croce agli inizi della guerra.
Forse pensando di non essere stato abbastanza esaustivo e temendo di aver dato l’idea di essere alla ricerca disperata di denaro, cinque giorni dopo don Luigi spedì al vicario generale un’altra lunga lettera:
Chissà quali erano gli acciacchi di cui soffriva don Natale, dato che la tradizione
tramanda di lui l’immagine della salute. Comunque la guerra ebbe il sopravvento sulla vita dei civili:
Toni Sgnaolin, che era riuscito a frequentare anche i primi due mesi di seconda, dovette abbandonare la scuola.
Il fatto che i cognomi dei soldati morti risultino in ordine alfabetico indica che don Natale non registrò i decessi man mano che ne ebbe contezza ma tutti insieme alla fine dell’anno. 12 dicembre 1915: morte di Reina Guseo
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N° 435 di Protocollo
Comune di Musile La sottoscritta Giunta Comunale radunatasi il 20 Maggio 1916 presenti i Signori
Vista la domanda in data 1 Aprile pp del Sig. Don Simionato Natale Parroco di Croce di Musile diretta a conseguire l’uso della Concessione in perpetuo di un nuovo appezzamento di terreno di m. 1.30 x 2.30 nel Cimitero di Croce per uso tomba di famiglia intendendo ampliare verso ovest la tomba concessagli per il defunto suo padre giusta atto N° 446 delli 6 Marzo 1914_ e ciò allo scopo di acquisire il diritto per la concessione in perpetuo della tomba della propria Madre Liban Maria morta il 5 Marzo pp. collocata accanto alla tomba del padre suddetto.
Delibera di concedere l’uso in perpetuo di un appezzamento di terreno di M. 1.30 x 2.30 nel Cimitero di Croce di Musile al Sig. Simionato Natale da adibire ad uso esclusivo per tomba di famiglia, e ciò fatto la piena osservanza delle disposizioni tutte contenute nel Regolamento per Cimiteri di questo Comune in data 27 Agosto 1905 N 20 La Giunta Comunale
N. Saladini Segretario |
o – o – o – o
Il 28 maggio, dopo lo sfondamento austriaco sull’altopiano di Asiago,
Cadorna faceva fucilare alcuni soldati del 141° fanteria “rei di aver ceduto”;
il giorno dopo, il ministro della guerra Morrone, relazionando al Consiglio de ministri l’incontro avuto con Cadorna,
comunicava che se l’Austria avesse attaccato sull’Isonzo, le forze italiane avrebbero ripiegato sul Piave.
Nel portare a due genitori del paese la notizia dell’ennesimo morto in guerra, colpito da una granata, il paroco
doveva cercare leparole più consolanti: «Pensé che ’l gà fato el so dover. E che no ’l gà soferto...»
Questo sempre gli chiedevano i familiari, se’l gavesse soferto, e invariabilmente don Natale rispondeva:
«I me gà dito de no, che ’l é morto sul colpo. Preghémo».
L’infelice andamento della guerra provocò una crisi politica:
cadde il governo Salandra e gli successe il governo Boselli.
Tra il 10 e il 12 ottobre fu combattuta l’ottava battaglia dell’Isonzo.
Il 23 don Natale portò 37 ragazzetti a cresimare a Noventa, novelli soldati di Cristo.
Diciassette furono i crocesi morti in guerra quell’anno 1916, registrati sul triste quadernetto:
1916 1. Cappelletto Luigi, con 2 figli minorenni. Morto il 18 novembre 1916.
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La registrazione in ordine alfabetico mostra che a fine dicembre le notizie certe riguardavano i primi 14.
A riordinarli in senso cronologico si può dedurre in quale battaglia erano morti.
Le notizie della morte degli ultimi tre arrivarono nel ’17, ma le riportiamo qui, esattamente come le scrisse don Natale.
Il 21 novembre moriva anche l’imperatore Francesco Giuseppe. S’era definitivamente chiusa un’era.
In marzo insorgeva la popolazione di Pietroburgo, fiaccata dalla fame e dalla guerra, lo zar abdicava,
in aprile Lenin rientrava in Russia nel “vagone piombato” che la Germania gli aveva messo a disposizione.
A metà maggio Cadorna dava il via alla decima battaglia dell’Isonzo, questa volta concentrando l’attacco
in un breve settore del fronte, sul terribile Carso, in tre settimane gli italiani lasciarono sul terreno,
fra morti e feriti, 130 mila uomini. L’Austria proponeva all’Italia il Trentino e una zona di confine lungo
l’Isonzo in cambio di una colonia, ma gli alleati rifiutavano. Si ammutinava la Brigata Catanzaro e ne seguivano
le decimazioni. Il morale era così scosso che Cadorna pensò di scatenare una nuova offensiva:
gli Italiani conquistarono la vetta dell’Ortigara ma vi arrivarono così stremati che al primo contrattacco nemico
la ripersero. In agosto Cadorna comandò l’undicesima battaglia dell’Isonzo, la più massiccia,
con la conquista del Monte Santo e parte dell’altipiano della Bainsizza, ma procurava un’altra carneficina:
in pochi giorni gli italiani avevano perso 100 mila uomini.
Nelle varie battaglie gli Austriaci avevano annientato col gas interi battaglioni di italiani:
a Sdràussina, paese natale di don Natale, morirono più di 5000 soldati italiani, da riempire tre cimiteri.
Il generale Cadorna ordinava la sospensione degli attacchi e si preparava alla “difesa ad oltranza”.
Le notizie circolavano come le facevano circolare i giornali, istruiti da Cadorna.
Il mistero della tragedia aleggiava senza che nessuno in paese ne afferrasse i contorni.
Il 20 settembre 1917 l’economo della Curia di Treviso, il sacerdote salesiano Valentino Spigariol,
venne a ispezionare i conti della
Parrocchia
§ I° Chiesa.-
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§ II° Confraternite e Pie Unioni
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§ III° Beneficio Parrocchiale
c) Il Beneficio possiede inoltre una chiusura di Pertiche censuarie 17.24 . Sui redditi di detta chiusura gravita l’onere di provvedere l’olio per la lampada del Santissimo, onere che fu sempre ottemperato, in seguito a richiesta della Reverendissima Curia 10 – 11 – 915, il Parroco rispose in data 19 – 11 – 1915.
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§ IIII° Beneficio Parrocchiale – Allegato
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§ V° Cappellania
Croce di Piave 20 – 9 – 917
Sac. Val. Spigariol
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Era la foto poco prima della tragedia. Il delegato visionò anche i registri parrocchiali e il quadernetto dov’erano registrati i soldati crocesi morti in guerra. Quell’anno, fino al momento in cui il delegato vescovile appose il suo visto, i caduti erano i seguenti:
1917 1. Cadamuro Vincenzo con figli 5 minorenni, morto il 22 maggio 1917.
Visto nella visita straordinaria
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Il 25 settembre don Natale portò altri 94 tra ragazzetti e ragazzette a cresimare a San Donà. Il mese successivo aggiunse l’ultimo nome che compare sul quadernetto dei morti di guerra, prima che ogni registrazione divenisse impossibile:
6. Fornasier Giuseppe-Francesco ferito sul Carso a Vertorba, morto il 19 agosto 1917, come da notizie spedite dal Cappellano della Croce Rossa alla Nob. Contessa Rachele Sacerdoti Gradenigo in data 10 ottobre 1917 per la famiglia Fornasier. |
Al fronte stava per consumarsi il dramma. Il 24 ottobre gli austro-tedeschi
iniziarono un’offensiva nei pressi di Caporetto, a fondovalle anziché sulle cime, sorprendendo i comandi italiani e facendo saltare i collegamenti tra i reparti; i generali italiani si ritrovarono impreparati alla bisogna, la II Armata si trovò nel caos, le truppe italiane, prese alla sprovvista, si sfaldarono, si disfecero, si lanciarono in ritirata, la ritirata divenne rotta, l’esercito italiano lasciò nelle mani del nemico una quantità impressionante di armi e munizioni, intere popolazioni, alla vista dei soldati in fuga, abbandonarono in fretta le case, e militari e civili si confusero in una marea umana in fuga dalla guerra; martedì 28 ottobre la fiumana di profughi proveniente dalle zone del Tagliamento, della Livenza, in disordine e senza meta, cominciò a riversarsi sul Piave.
A San Pietro al Natisone era stato gravemente ferito Antonio Boccaletto,
abbandonato agonizzante dai suoi compagni di reparto.
Pierina Chiagig, una ragazza slovena che viveva praticando il contrabbando e attraversava sovente il confine,
lo vide in fin di vita e lo soccorse. Lo portò a casa sua e lo curò.
Accadde durante la rotta di Caporetto o era già accaduto in occasione delle battaglie precedenti? Non lo so, ma
sapremo più avanti come continuerà la loro storia.
I generali, nel tentativo di recuperare “la” fronte, pensarono solo per un attimo di attestare l’esercito sul Tagliamento, ma da subito il Piave apparve più sicuro. Alla Conferenza Interalleata di Rapallo i generali francesi e inglesi, sulla carta delle operazioni, proposero di stabilire il nuovo fronte addirittura sul Mincio, lasciando il Veneto (e Croce) agli Austriaci, come prima del 1866, ma Vittorio Emanuele III puntò il dito più a est, sulla linea del Piave: «Ci fermeremo qui!» disse, riferendo la decisione dei suoi generali. Il Veneto era costato così tanto alla dinastia... e non si poteva abbandonare Venezia, unico porto dell’alto Adriatico, in mano agli Austriaci. Dopo accesa discussione l’accordo fu raggiunto sulla rimozione di Cadorna, che fu “promosso” a una inutile Conferenza Interalleata; gli subentrò Diaz, che non era nemmeno Generale d’Armata ma era massone come il nuovo Ministro della Guerra. E gli fu affiancato come vice Badoglio, massone anche lui.
Mentre l’esercito si riorganizzava nella cosiddetta “battaglia d’arresto”,
per giorni e giorni i contadini di Croce videro passare per le strade e per i campi soldati smarriti,
uomini sui carri o a piedi, famiglie intere cariche di fagotti o senza nulla, per giorni e giorni.
Gli abitanti di Croce non avevano mai visto tanta gente tutta in una volta!
Poi arrivò l’ordine di sgombero dall’Autorità Militare Italiana e anche gli abitanti del paese dovettero
allontanarsi, partire profughi. Secondo notizie ufficiali il 6 novembre cominciarono a partire i primi profughi.
Così ricorda Ferdinando Bortoletto la partenza improvvisa dalle Case bianche:
Nell’ottobre 1917 dovemmo partire profughi di guerra. Mollarono l’acqua, cioè ruppero uno dei “manufatti” [=idrovore]. Mia madre era incinta al nono mese. Mio poro barba Cencio e l’altro suo amico venivano su per lo stradone, non c’era allora strada, arrivarono fin da Bincoletto e trovarono un ufficiale che gli chiese dove stessero andando e li invitò ad andare via subito ché c’erano i tedeschi di là del Piave. I due tornarono indietro, la famiglia caricò tutto il possibile sui quattro carri che avevamo, tirati dalle bestie, e andammo verso le Porte [=Portegrandi], dove tutto era proprietà di Camarotto. Mia madre partorì. Rimanemmo lì tre giorni. Tutto ci fu requisito, carri e bestiame, niente più da mettere indosso. Lì morì la Sunta, di tre giorni, per il freddo. Dalle Porte andammo a Mestre in treno. A Mestre rimanemmo due giorni per fare carte. Avevo due zii via militare; mio padre doveva operarsi un’ernia e così, grazie alle conoscenze degli zii, poté rimanere a casa. Poi ricevemmo la destinazione, che era Ascoli Sartiano in provincia di Foggia; due giorni di viaggio e finimmo a vivere dentro un magazzino dove stavano altre due o tre famiglie, un magazzino per le bestie e il foraggio.
Altri partirono per Ferrara, per Parma, o ancora più a sud, verso Napoli e Salerno;
molti arrivarono in Sicilia.
L’esercito asburgico era intanto giunto sulla sinistra del Piave e lì, lungo l’argine, stava piazzando
i suoi cannoni e le sue mitragliatrici. Da Croce già si avvertivano le esplosioni,
il paese stava diventando un tremendo…
Don Natale resistette fino all’ultimo. Poiché l’anagrafe del Municipio di Musile andò subito distrutta, il prefetto chiese ai parroci del Comune di mettere in salvo i registri parrocchiali.
La mattina del 9 novembre, dopo che alle cinque fu fatto saltare
il ponte ferroviario, don Natale e la sorella,
caricati sul calesse i registri di Croce e quanta più parte delle suppellettili sacre,
si diressero verso Meolo, alla stazione del treno, dove già era affluita una quantità incredibile di gente,
famiglie intere che vociavano e urlavano e nessuno che sapesse bene cosa fare.
Abbandonata la cavalla col calesse nella piazzetta della stazione, dove altri animali giacevano abbandonati
al loro destino – sarebbero stati a breve requisiti dai militari – paroco e sorella caricarono
i “bagagli della parrocchia” sul treno e partirono alla volta di Zelarino,
dove i conti Gradenigo di colà, parenti di quelli di Croce, li avrebbero ospitati.
Alle undici veniva fatto saltare il ponte stradale quando già le armate austro-ungariche entravano in San Donà.
Il 10 novembre don Natale celebrò la messa a Musestre con le lacrime agli occhi e “confermò le Sacre Patenti”,
cioè rinnovò le proprie promesse di prete in vista della grande prova. Il 15 era ancora a Zelarino,
come confermava un resoconto inviato al vescovo il 25 novembre dal cappellano militare Giuseppe Casonato:
Ritornai in bicicletta, non a san Donà già occupata, ma a Musile il giorno 15: avevo sentito che tutto a San Donà era stato distrutto. Volli andare a fare la verifica, e sotto i colpi di cannone giunsi fino a villa Sicher di Musile: la chiesa di Musile fu dalle granate nemiche rovinata in gran parte; così la cuspide del campanile fino alla cella campanaria. Sull’argine di Musile si trovano i nostri, su quello di San Donà gli altri. Di San Donà vidi ancora in piedi la chiesa, il municipio e diversi altri palazzi più emergenti. Pranzai dal parroco di Losson, deciso di fermarsi sul posto; vidi intatta la chiesa e il campanile di Croce: il parroco di Croce si trova a Zelarino.
Ma nei giorni successivi don Natale fu costretto ad abbandonare anche Zelarino e partire con la sorella alla volta di S. Lazzaro Parmense.
I Paludetto, i Guseo (e quanti altri?) arrivarono fino alla Sicilia.
Lì la Tonina, moglie di Attilio, giunse con tutta la prole. Affranta. Toccò alla secondogenita Elisa(betta),
di appena dodici anni sostenerla, ché lei era devota ma un poco fragile di carattere.
Elisa aveva 4-5 fratelli cui badare, uno più vecchio di due anni, Antonio, e gli altri più giovani
e doveva lavorare per tutti. Finirono a lavorare presso una famiglia nobile per sbarcare il lunario,
là era come qua a Croce, poche famiglie di proprietari terrieri, ricchi sfondati, possedevano tutti
e lei andava a tener loro la bambina e doveva lavarle la roba; “Quanta m... che ho lavà” avrebbe sempre raccontato
alle figlie. In senso metaforico e letterale.
Sotto le nuove direttive l’esercito italiano venne riorganizzato, lo sforzo della Patria per garantire rifornimenti all’esercito e i ricambi in prima linea fu senza precedenti (tutto nella Prima Guerra Mondiale fu senza precedenti, l’intera Prima Guerra Mondiale fu senza precedenti!), la linea del Piave tenne, sanguinosamente, valorosamente, miracolosamente, e si preparò a sostenere la probabile offensiva austro-ungarica della primavera successiva.
Foto aerea scattata dalla FliegerKompanie il 18 marzo 1918.
Mostra la zona di Croce di Piave là dove la Strada matta
- o Strada della matta
si innesta sulla strada sopra l’argine della Fossetta.
Si noti Casa Franceschini che di lì a poco diventerà sede della Croce Rossa.
Per tutto l’inverno e la primavera piovvero granate.
Il paese era zona militare e fu attraversato in lungo e in largo dalle camionette dei soldati.
Dobbiamo al capitano Ettore Borghi questa foto di Casa Montagner,
quasi alla fine dell’attuale via Morosina (allora strada che metteva alle paludi Vendramin).
Al medesimo Borghi dobbiamo la foto del Capitello di sant’Antonio presso il
bivio di Casa Gradenigo.
Dietro il capitello si vede Casa Gradenigo
già colpita dalla guerra, ma non ancora ditrutta come sarà di lì a poco.
Si notino i cartelli stradali che indicano
le località di San Michele del Quarto (oggi Quarto d’Altino) lungo la provinciale
(attuale via Croce) e la direzione per Treviso (lungo l’Argine San Marco)
Il paese era alla mercé dei militari.
In qualche imprecisato momento
il forno dei Calderan risultò occupato dai soldati
per dar da mangiare all’esercito.
Cortellazzo era presidiata e mio nonno Nanei [Primo Granzotto] che era impresario di Croce
andò a costruire tutti i fortini lungo la riva di Punta Sabbioni, tutti i pozzetti antisbarco,
e là infuriò la guerra; e vennero a bombardare anche il forno dei Calderan.
[dai ricordi di Silvio Calderan]
Nella prima metà di maggio la pianura friulana formicolava di truppe e sul Tagliamento e sul Livenza i reparti si esercitavano al passaggio dei fiumi. Nelle scaramucce di fine maggio gli italiani stabilirono una testa di ponte a Caposile. Lì morì il Tenente Pellas.
(clicca QUI per la pagina monografica)
Il piano dell’offensiva austriaca era grandioso: consisteva in un unico attacco
condotto su due fronti per colpire nel vivo l’avversario, e mettere l'Italia fuori combattimento.
Dalla grave di Papadopoli al mare, sulla sinistra del Piave sette divisioni austriache avevano compiuto tutti i preparativi per passare e aspettavano l’ordine di salire sui canotti e sulle chiatte, certe della sorpresa e del facile trionfo. Dietro a queste, altre cinque divisioni finivano di assestarsi sognando la marcia trionfale che le avrebbe portate a mettere le mani su Venezia e sulla pingue pianura padana.
Nella grava e sulle isole di Papadopoli gli austriaci avevano deposto il materiale per costruire il ponte ed armi, munizioni e viveri. Tutto era pronto per passare.
A sua volta l’esercito italiano, riorganizzatosi tempestivamente (ebbe percezione delle mosse nemiche
e informazioni da patrioti boemi e cecoslovacchi), prese le contromisure per parare il colpo che prevedeva formidabile.
Alle due del mattino, il generale Borojevic diede l’ordine di attaccare. L’artiglieria austriaca iniziò il tiro di preparazione, il cannone rombò dagli altipiani alla laguna e l’inferno si scatenò su tutto il fronte. Sulle artiglierie italiane grandinarono proiettili gasogeni che, sulle linee dell’argine, produssero una fitta nube che doveva proteggere il passaggio del fiume mentre sulle fanterie si abbatteva una tempesta di granate. I proiettili speciali infestavano tutte le retrovie cercando di paralizzare il funzionamento dei comandi, di demolire le riserve, di diffondere il panico. Ma i comandi italiani, a conoscenza dell’attacco, avevano tenuto il grosso delle linee più indietro, al riparo dai bombardamenti. L’obiettivo austriaco di schiantare il fronte italiano era fallito.
I reparti italiani in prima linea, per paura dei gas, rimasero tuttavia rintanati nelle trincee più a lungo del previsto e reagirono in ritardo. Gli austriaci riuscirono a forzare in due punti. A sud i primi assalitori varcarono il Piave da sotto le porte del Taglio, dinanzi ad Intestadura, e, contemporaneamente, dalle curve di S. Donà, davanti alle scuole “San Rocco”, a Croce, a circa duecento metri dal passaggio a livello. Erano le 2 del mattino. Avvolto e protetto dalla nebbia artificiale, il nemico apparve sulle nostre prime linee e, subito, di sorpresa si spinse avanti, nelle seconde linee, tentando l’argine di San Marco e le paludi.
La difesa italiana si ritrovò immediatamente disperata. La 7a batteria del 34° reggimento di artiglieria di campagna comandata dal capitano Ottorino Tombolan Fava sostenne per cinque ore il tiro concentrato e preciso delle artiglierie nemiche sulla sua batteria rispondendo efficacemente col fuoco dei suoi pezzi. Al sopraggiungere di reparti di arditi avversari, esaurite le munizioni, si difese valorosamente finché, raggiunto dallo scoppio di una bomba a mano, cadde sull’ultimo pezzo ancora conteso dal nemico. Erano le 7. Il nemico ebbe via libera e passò.
Contemporaneamente, nella zona più a sud, lungo il fiume, il maggiore Giulio Marinetti, dello stesso reggimento, difese strenuamente le batterie affidategli finché, colpito da una bomba a mano, cadde gravemente ferito .
Il nemico era riuscito a passare. E ora voleva travolgere la difesa, dilagare, arrivare a Venezia. A Fossalta sbarcò alle 7 e fu subito contrastato sull’argine di San Marco. Superato l’argine il nemico si trovò in difficoltà all’Osteria di Fossalta ove fu nuovamente attaccato e perdette un tempo prezioso. Gli ordini erano che alle ore 12 avrebbe trovarsi all’altezza del canale Millepertiche, sulla strada Triestina, per congiungersi ai suoi commilitoni sbarcati a Musile che lo attendevano fin dal mattino, per proseguire insieme a Venezia.
Con violentissime azioni di fuoco e con rapidità di movimenti, l’esercito austriaco era riuscito a ottenere i successi che generalmente spettano a coloro che per primi prendono l’iniziativa; aveva anche occupato, sulla sponda destra, una lunga e stretta testa di ponte che, dall’ansa di Zenson a quella di Lampol, scendeva all’ansa di Gonfo.
Inserirsi nell’ansa di Lampol non era stato facile: gli austroungarici avevano dovuto scostare dalla sponda del fiume le brigate Ferrara ed Avellino e il 90° zappatori del genio (unità composte quasi esclusivamente di giovani della classe 1899), tenacemente avvinghiate e nell’impossibilità di manovrare perché accerchiate. Esse assediate, bombardate, decimate si rinchiusero a casa Marini [in nota: al tempo di Alba Bozzo casa Marini era divenuta casa Belloni].
Più a nord, tra le grave di Papadopoli e Zenson, il nemico era apparso verso le 9. Passare il Piave tra Sant’Andrea di Barbarana e le grave di Papadopoli e a Nervesa era stato meno difficile. Là il fiume scorre lento, placido, solcato da bagliori di luci. Si rompe contro i molti isolotti, contro grovigli di piante, fasci di reticolati, pali discesi da monte e rotolati sul greto coperto di ciottoli e di sassi. L’acqua spumeggia mandando lampi e scintille e corre via. Vi è un minuscolo arcipelago nelle grave di Papadopoli, intorno alle cui isole scivolano rivali d’acqua sottili e serpeggianti. Ci sono dei punti nei quali le rive si allargano fino a tre chilometri e più.
vAl fuoco di preparazione degli Austriaci risposero le raffiche delle nostre artiglierie che battevano i ponti appena gettati, le vie di comunicazione, le zone di raccolta, riducendo al silenzio le batterie più moleste.
Per neutralizzare la micidiale avanzata nemica il nostro Comando Supremo aveva tratto dalle sue riserve unità di provato valore. Il primo urto fu sostenuto dalle Brigate Veneto, Caserta, Sesia, Cosenza, Ferrara, Avellino, Catania, Arezzo, dal 2° Bombardieri e dal VI - VII - VIII - X bersaglieri ciclisti.
I primi gruppi di urto austriaci cozzarono, nell’ala sinistra, verso Fagarè,
e al centro contro una muraglia di petti umani incrollabili e ciò influì nelle sorti
della battaglia fin dal primo momento. Il nemico aveva fretta. Treviso era lontana,
lo sapeva dalle sue carte geografiche, sapeva anche che doveva giungervi a piedi,
prima di notte. Ci voleva tempo per gettare la passerella e tanto valeva cominciare
a passare a guado facendo catena con le mani per battere il tempo. I nemici passarono
con forze preponderanti. Da case Ninni i comandi italiani trasferirono il 243° reggimento Cosenza,
comandato dal maggiore Carlo Guadagni che, quella stessa mattina, oppose una disperata resistenza
costringendo il nemico a ripiegare. Più tardi, nella stessa mattinata, nuovamente assalito, il maggiore si asserragliò con pochi superstiti nel caposaldo della posizione, a Sant’Andrea di Barbarana, si difese coraggiosamente con bombe a mano finché, colpito al petto da una scarica di fucileria, cadde gloriosamente sul campo.
Faticosamente, impiegando sempre nuovi battaglioni, gli austriaci riuscirono ad affermarsi da Saletto a Zenson, dall’ansa di Lampol e di Gonfo alla zona di Musile, addentrandosi a metà del triangolo limitato ai lati dal canale Fossetta e dal Taglio del Sile.
L’afflusso di forze nemiche fece ondeggiare il fronte italiano.
Anche a Capodargine sì combatté ma l’aggancio con i reparti più a sud era ormai fallito: a mezzogiorno i soldati della Marina Lagunare, immolatisi fra canneti e fanghiglia, avevano già provveduto a girare a rovescio le turbine delle macchine idrovore, ripetutamente conquistate e perdute, sistemate sul canale Millepertiche e gli austriaci erano stati immobilizzati dall’acqua. La «gita» austriaca a Venezia era sfumata. La situazione però non era rosea. A sud, la brigata Arezzo fu costretta a sgombrare Capo Sile. Data la situazione critica il Comando Supremo inviò la 33a Divisione, di cui faceva parte la Brigata Sassari, reggimento 151° - 152°, in rinforzo alla III Armata per ristabilire la situazione alla sua estrema destra cioè a Croce e a Musile. La divisione arrivò alle ore 22 e venne sbarcata a Meolo e a Fornaci. Il motto della Sassari era (ed è) «Sa vida pro sa Patria». L’avrebbero data in molti.
La notte non valse a fermare la battaglia che infuriava lungo tutto il fronte; le artiglierie nostre e nemiche batterono intensamente tutta la zona. La situazione era contraddistinta da incertezze e da incognite. Le informazioni, anche quelle del Comando Supremo, erano discordanti ogni minuto. Si sapeva solo che il nemico aveva varcato il Piave a San Donà e a Musile e cercava di far passare le sue riserve per rinvigorire la battaglia. Alle ore 3 del 16 Giugno il Comandante di Divisione diede l’ordine di operazione e ordinò che un reparto del 151° si assestasse sullo scolo Palumbo (strada Fornaci-Pralongo) e a Pralungo. Un reparto del 152°, alla stessa ora, doveva trovarsi allo scolo Palumbo, sulla strada Losson-Capodargine; un altro distaccamento alle Albere di Losson. Nello stesso tempo pattuglie di esplorazione sarebbero passate all’Osteria di Fossalta e a Croce, indi, attraverso i campi, sarebbero avanzate fino all’argine di San Marco e al Piave finché incontreranno le truppe nemiche.
Il 151° reggimento, riparandosi con pattuglie, occupò Capodargine ed avanzò fino a Millepertiche. Il 23° battaglione di bersaglieri ciclisti, in linea sulla Fossetta, avrebbe dovuto mantenersi sul luogo per difendere la destra della Sassari.
Le truppe arditamente si mossero verso gli obiettivi fissati. Fanti ed ufficiali, malgrado fosse ancora notte, si rendevano conto delle enormi difficoltà che presentava il terreno: un terreno piatto, senza una minima altura, solcato da una rete di fossi, di canali stretti e larghi, di viottoli e strade, il tutto nascosto da una fitta vegetazione quasi tropicale formata da viti disposte a festoni, alberi, siepi, campi di mais e di grano.
Tornarono le prime pattuglie; l’Osteria di Fossalta era sgombra, ma la località era in parte occupata come lo era Croce, Capodargine e, fatto estremamente grave, i nostri non si trovavano all’ansa di Gonfo. Era necessario esplorare la zona prima di cominciare l’azione. Il primo che chiese di scandagliare il terreno fu il sottotenente Attilio Deffenu. Oltrepassò con la sua pattuglia lo scolo Palumbo, si inoltrò in un terreno infido e grave di minacce e di agguati. Il nemico sparava da ogni lato insidiosamente. Il suo compito era di arrivare al caposaldo di Croce, di vedere com’era composto e disposto il nemico, quali erano i suoi numeri, di intuire le sue intenzioni per dare notizie precise al comandante e diminuire le incognite del combattimento.
Deffenu arrivò miracolosamente a Croce. Il nemico lo intuì, lo braccò, gli si accostò ai lati, alle spalle, lo circondò. Attilio Deffenu udì il suo battaglione combattere per arrivare ove egli si trovava con la sua pattuglia. Davanti a Croce l’insidia era maggiore, l’astuzia più silenziosa e più prudente; il suo compito non gli permetteva l’urto glorioso dell’assalto.
Il nemico vigilava e non poteva essere sorpreso perché occupava ogni palmo di terreno. Il cerchio si restringeva, il nemico premeva, i suoi sardi gli si fecero intorno, lanciarono bombe, mitragliarono, spararono. Una bomba lo raggiunse: era il primo ufficiale della giornata a morire il 16 giugno .
A Croce venne quindi inviato il 3° battaglione comandato dal colonnello Giovanni Giusti del Giardino, «uno dei più belli ufficiali della brigata». Veneto, proveniva dalla cavalleria. Il battaglione partì dal bivio dopo Capodargine, percorse la Strada Matta e, giunto alle case Gradenigo, piegò sulla via principale del paese, che passava sulla ferrovia, e oltrepassò il nuovo cimitero.
Il nemico lo attaccò da tutte le parti, le pallottole piovvero da ogni direzione, il combattimento si frantumò in gruppi e squadre; arrivato al centro del paese, l’assalto divenne furibondo. Il nemico fu ricacciato, i cadaveri coprirono ogni campo.
Il battaglione avanzò verso l’argine San Marco, verso il conteso Piave. La pressione nemica aumentava da ogni lato. Frontalmente, dall’argine di San Marco, scendevano numerosi reparti nemici lanciando i loro clamorosi urrah! Il battaglione ne fu investito, respinto nella piazzetta ma non cedette. Chiese rinforzi al comando di brigata che gli inviò una compagnia di mitraglieri.
Il battaglione riuscì a rompere l’accerchiamento, alle 9.30 una colonna del 152° occupò il caposaldo di Croce. Truppe fresche giungevano dall’ansa di Gonfo al nemico. Il colonnello riparò i suoi uomini nel sagrato ancora cintato, un tempo cimitero, davanti alla chiesa la cui facciata era ancora eretta sebbene sbrecciata. Il nemico si accanì, una granata colse il comandante che cadde, ferito. Era il primo durissimo scontro della giornata, altri ne sarebbero seguiti dalle 12 in poi, altrettanto feroci e sanguinosi.
Nello stesso momento un’altra colonna del 151° occupò Capodargine. Verso Fossalta, gli austriaci, penetrati dall’ansa di Gonfo, premevano il fianco sinistro della brigata.
Il Comando divisionale ordinò una sosta nel combattimento per riordinare e rinforzare le truppe. Inviò a Fossalta l’VIII bersaglieri ciclisti e la 137a compagnia di mitraglieri, con l’ordine di tenere il paese ad ogni costo per impedire che il reggimento fosse preso alle spalle alla ripresa dell’azione.
L’azione ripartì alle ore 12. Le due colonne di reggimento ripresero con slancio meraviglioso l’avanzata, una uscendo da Croce, l’altra da Capodargine. L’avanzata fu travolgente. I nemici che a gruppi occupavano fossi e siepi vennero assaltati furiosamente con bombe a mano. Le perdite erano sensibili anche tra i nostri ma la loro audacia fu stupefacente.
Il 152° superò casa Gradenigo [poi Cuppini poi Rorato], e avanzò sull’argine. Il 151° raggiunse la ferrovia col fine di arrivare, lungo lo scolo Gorgazzo, a Musile attraverso i campi. I due reggimenti impegnarono tra loro una gara fraterna e superba: chi sarebbe arrivato primo al Piave? Solo 300 metri separavano il 152° dal fiume. Alle 15, tre ore di combattimento avevano assottigliato i reparti ma centuplicato il valore e la forza. Il nemico si batteva valorosamente dappertutto e col fuoco delle mitragliatrici, premeva e arginava i nostri.
Ma dall’ansa di Gonfo il nemico dilagava e travolgeva.
Tre reggimenti austriaci furono inviati a Fossalta, a casa Silvestri, come riserva. Si preparava la lotta per Losson. La Sassari, insistendo nello sforzo di arrivare al Piave, s’accorse che il nemico tentava l’accerchiamento. La gloriosa Sassari non può cader prigioniera; i soldati ripiegarono dal Piave. Vicino all’argine verranno trovati, il giorno 24, i più valorosi dei suoi, morti da pugnale nemico. Eroi senza medaglia!
Alle 17 la situazione precipitò, alle 18 i reparti ripiegarono. L’ordine di ritirarsi sorprese il capitano Tito Acerbo ancora discosto dal centro. L’abruzzese dispose a gruppi e a squadre i suoi soldati e retrocedette combattendo per contrastare l’avanzata al nemico. Il nemico lo circondò, egli tentò di aprirsi un varco ma venne colpito a morte. Cadde a dieci metri dal campanile. Non ci fu tempo per seppellirlo. Gli sarebbe arrivata una medaglia d’oro. Una d’argento sarebbe arrivata anche al soldato Vitale Cossu .
Anche a Fossalta la situazione era andata precipitando: alle 16.15 i bersaglieri che la presidiavano avevano dovuto cedere al furore nemico, dopo essersi battuti come leoni contro una marea di nemici «ebbri di vittoria». Ripiegarono su Pralungo. Alle ore 16.45 fra Fossalta e casa Silvestri erano arrivati i 3 reggimenti austriaci i quali premevano il tergo e il fianco del 152°. Inoltre alle ore 18 un quarto reggimento rincalzava i tre precedenti.
Sul campo di combattimento di Croce fu trovato un biglietto austriaco:
Ai battaglioni I, II, III - 16 giugno, ore 6 pomeridiane.
- Conservare il raggiunto obiettivo fissato per la giornata (Croce); - Prendere sicuri collegamenti; - Già ordinato il rifornimento munizioni a mezzo della Compagnia Gendarmi; - Il Comando di reggimento, ora a metà dell’argine di casa Gradenigo trasporterà subito il proprio posto a circa metà della strada dl Fossalta: casa Silvestri; - Per norma: Croce è stata presa dal 100° fanteria verso le ore 4,45 del pomeriggio; il 20° reggimento fanteria è giunto come riserva di divisione a casa Silvestri. - Fare economia di munizioni fino all'arrivo dei rifornimenti ora ordinati. - Stabilire subito collegamento telefonico col Comando del reggimento a metà dell’argine, casa Gradenigo. Morawschi |
Alle 19 il comandante decise di lasciare sulla linea scolo Palumbo-Losson-Meolo i bersaglieri, i bombardieri,
la brigata Bisagno perché la difendessero ad oltranza.
La sera del 16 il nemico, dopo aver preso Croce, mirava al caposaldo di Losson, mentre altre pattuglie
nemiche si avventavano sulla Callalta. La situazione si faceva sempre più difficile per gli italiani.
Le nostre truppe ripiegavano sull’argine lungo tutto il fronte.
Il 17 giugno, caduta Croce, la brigata Sassari si diresse verso Ca’ Tron per ripristinare le armi e i quadri e presentarsi al prossimo combattimento in piena efficienza. Restavano la brigata Bergamo e i bersaglieri ciclisti a presidiare scolo Palumbo, Losson e Meolo divenuti centri di combattimento dopo la caduta di Croce.
La importanza tattica dei capisaldi era di primissimo ordine; il nemico ivi aveva concentrato le sue forze nella speranza di estendersi a Meolo, aggirare il caposaldo di Monastier tentando così di rompere lo schieramento difensivo italiano sul Montello con conseguenze disastrose per la difesa. Il nostro Comando ne era conscio e si preparava a sostenere l’urto.
Le truppe italiane resistettero (e avrebbero resistito in tutto tre giorni senza viveri, senza acqua, dissetandosi in fossi infetti nei quali galleggiavano cadaveri, prive di armi e munizioni). Un pattuglione nemico riuscì ad infiltrarsi nei vuoti della linea ma reparti del Piemonte Cavalleria lo caricarono e catturarono. Tre giorni durò la resistenza, durante i quali caddero quasi tutti i nostri ufficiali e moltissimi soldati. L’anima della resistenza fu il maggiore Francesco Mignone che per tre giorni si mantenne incrollabile al suo posto finché, alla fine, il pomeriggio del 17, cadde tra i pochi superstiti . Il suo corpo non venne ritrovato. Scomparve nel mistero di quel pomeriggio di eroismo, quasi rapito nella atmosfera di silenzio che sopravvenne alla sua scomparsa.
Il nemico si sistemò nella grava attratto dall’argine per la virtù difensiva e protettiva che da esso derivava e più ancora perché Zenson, Lampol e Gonfo, saldamente in suo possesso, insieme alle precarie conquiste di Ronche, Fossalta e Capodargine, e a quella quasi permanente di Croce, costituivano una forte tenaglia nella quale le nostre azioni finivano sempre per essere attaccate da due fronti.
Nel settore, quindi, esistevano equilibrio ed elasticità che i reciproci attacchi movimentavano.
Conseguenza di tale situazione fu che tanto al di là di scolo Palumbo quanto sulla strada Fossalta-Capodargine i contendenti si alternavano. Prova ne sia che nessun Comando dovette cambiare di posto, che i luoghi conservarono, dopo la battaglia, i medesimi caratteri dei primi giorni, quelli cioè di un campo di lotta dal quale, ciascuno dei combattenti, usciva a sua volta vincitore senza essere mai un vincitore duraturo.
La battaglia andava ad ondate: un’ondata italiana riusciva a dare al nemico una spinta e a farlo retrocedere ma, poco dopo, un’ondata austriaca respingeva momentaneamente gli italiani e poi da capo.
Gli attacchi erano a volta a volta preceduti da terribili bombardamenti provenienti o da Noventa o da Capodargine che distruggevano ogni cosa.
Questa era la situazione in cui Fossalta si trovava la sera del 17 giugno quando la Ia Divisione di Assalto, creata e diretta dal Generale Ottavio Zoppi, entrò in azione. La Ia Divisione di Assalto partì ignorando tutto della situazione, del nemico, del terreno.
Gli Arditi non perdettero tempo, il loro programma era denso di appuntamenti: schierarsi sul fronte di Lampol-Ronche-scolo Palumbo; attaccare Capodargine, puntare sul Gorgazzo, case Gradenigo e Croce; riconquistare l’argine di San Marco e casa Gradenigo, Fossalta e perfino l’ansa di Gonfo, saldamente occupata dal nemico, chiamata la sentinella armata di Fossalta per la sua inviolabilità, non era avventura da poco.
Gli arditi consumarono il rancio e si avviarono in tutte le direzioni cantando, urlando, sparando, risvegliando echi lontani, allarmando il nemico che usci dalle sue trincee e rispose adeguatamente alla provocazione perché le truppe imperiali, ogni qualvolta furono, in quei giorni, a contatto con i nostri, si batterono sempre magnificamente. Gli arditi investirono il nemico con cortine fumogene, con gragnuole di petardi seguite da una violenta mischia a pugnalate. E se non poterono mantenere gli obblighi topografici né raggiungere alcuna posizione si fecero ben conoscere dal nemico che non si aspettava una simile ventata.
Il 18 giugno il nostro centro rioccupò la linea dello scolo Palumbo e alcuni salienti migliorando la situazione.
Nella giornata violenti acquazzoni portarono il Piave in morbida, lo ingrossarono, la corrente si rafforzò e si abbatté contro i ponti gettati dal nemico, che riuscì a stento, a far passare sulla destra nuovi reparti e attaccò il saliente Fossalta - Capodargine che divenne centro di furiosi combattimenti.
L’esercito austro-ungarico aveva al di qua del fiume ben 14 divisioni che non riusciva a rifornire. Ma non si rassegnava all’insuccesso: ordinò ancora di attaccare. Lottò a Candelù e a Losson. La lotta assunse proporzioni epiche per l’accanimento dell’assalire e la tenacia del difendere. Gli Italiani attaccarono i punti nevralgici che occupava il nemico per costituire una linea difensiva che dal Gorgazzo passava per la Fossetta, la stazione ferroviaria di Fossalta, Correggio, Losson, lo scolo Palumbo. I centri erano battutissimi dal nemico, le vicende alterne e sanguinose. La brigata Bisagno, la Bergamo e gli arditi lottarono con violenza. La Divisione di Assalto lanciò attacchi contemporanei e convergenti, di cui uno, fra Ronche e scolo Palumbo, di una veemenza tale da provocare nel pomeriggio un’ondata di ritorno infiammata di rabbia e di vendetta, indimenticabile. Le Fiamme Nere, dopo alterne vicende, finirono coll’impedire al nemico di superare in forza lo scolo Palumbo.
L’altro attacco doveva contemporaneamente puntare su Fossalta: un reparto di arditi incominciò dall’Osteria a ripulire dal nemico casa per casa, fino al Piave.
Si scontrò, ne seguì una mischia corpo a corpo. Si avviò cantando verso l’ansa di Lampol. Il nostro comando lo fermò mandando la fanteria a prendere in consegna il tratto di argine da loro conquistato. Le truppe nemiche erano costrette in spazio angusto alla destra del fiume. Ma tornò in gioco l’ansa di Gonfo che di Fossalta era la guardia armata. Ne risultò un continuo alternarsi di attacchi e di difese che, se logoravano noi, contenevano il nemico il quale in quei due giorni era divenuto più persistente nel puntare verso sud-ovest con evidente tendenza a superare scolo Palumbo e a raggiungere Meolo.
La 4a divisione nell’ala destra, verso Caposile, che per la sua dislocazione non era stata coinvolta nelle azioni dei giorni precedenti, passò il Sile e avanzò occupando il margine della zona allagata.
Ma più a nord gli italiani non potevano avvalersi di rincalzi e alle 21 Capodargine andò perduto e di conseguenza anche Fossalta dovette essere abbandonata, assieme al caposaldo delle Ronche che fino a quel momento aveva opposto una valida resistenza
Durante la notte, gli austriaci rioccuparono la posizione. Il 19 mattina si ebbero ancora due azioni contemporanee degli Italiani: una diretta contro Fossalta e l’altra contro Capodargine. Tali azioni furono affidate alle brigate Sassari e Bergamo con alla testa di ciascuna una Divisione di Assalto.
Gli italiani erano stanziati nelle scuole di Ca’ Malipiero ove il nemico, dal tetto di villa Prina, li bombardava. La villa era stata risparmiata per la sua preziosità dai nostri ma la necessità ne imponeva la distruzione. Il giorno 19 venne abbattuta. Esisteva dal 1600.
Alle 12,30, anche sul Palombo l’azione fu ripresa con ferma decisione, con disperata volontà, con impeto inaudito. La questione era vincere o morire, lasciar passare il nemico o lasciarlo sul terreno. Fanti della .Sassari e della Bisagno, aventi in testa un gruppo di Arditi della Divisione di Assalto (arditi reggimentali) rinnovano i colpi con maggior violenza seminando la morte tra i nemici che si opponevano con tenace ed indiscusso valore. Gli assalti si susseguirono. L’attacco venne rinnovato dopo intensa preparazione di artiglieria e condotto arditamente. Si rispose con potenti raffiche di mitragliatrici da tutti i lati, la lotta arriva al corpo a corpo. Negli scontri due militi si guadagnarono la medaglia d’oro, Soccorso Saloni e il Bersagliere Attilio Verdirosi.
Durante il combattimento, approfittando dal terreno molto coperto di vegetazione e rotto da fossi e canali, nuclei nemici penetrarono da Sud-Ovest di scolo Palumbo (cioè da Fornaci) che era in nostre mani, mettendo in pericolo l’esito del combattimento.
Giunsero in quel momento, circa le 15, tre squadroni di Lancieri di Milano di stanza a San Pietro Novello, belli, calmi, ordinati sui loro lucidi cavalli come se andassero ad una parata. Fu un apporto morale. Il generale Ottavio Zoppi, fondatore del Corpo degli Arditi, ordinò loro: «Voi caricherete il nemico a cavallo come in passato». Tra gli squadroni passò un fremito, era ciò che desideravano. In due ore la zona fu ripulita con perdite minime.
La notte del 19 sul 20 la 1a Divisione di Assalto fu tolta dalla linea del Basso Piave e avviata nella zona di Lonigo. Il nemico si batté con estremo valore. I morti furono tremila, i feriti ventimila. Alla sera i Lancieri furono appiedati e mandati a tener duro a San Pietro Novello.
Il nemico dava ormai segni evidenti di stanchezza e di demoralizzazione; attaccò ancora qua e là, ma l’azione era slegata, la battaglia languiva, la nostra artiglieria flagellava i ponti e gli accessi alla riva sinistra. A Fagarè la mattina del 20 fu un inferno. Arrivarono rinforzi, si svolsero lotte estenuanti, avvennero episodi sovrumani davanti ai quali non si trovano parole sufficienti per lodare. Furono tutti eroi, dal soldato al generale. Alle 17.15 a Losson si svolse l’ultimo assalto, il più duro di tutti: masse compatte avanzarono urlando, ciecamente, con un ardore che farebbe onore ad ogni esercito. Avanzarono senza precauzioni, con disperazione, solo intente a stabilirsi definitivamente nella posizione che è passata di mano in mano.
Le nostre mitragliatrici colpirono inesorabilmente. I cadaveri nemici erano stesi sui campi, sulle acque, nei canali,
ogni metro ne era seminato. I nemici resistettero ostinatamente, decisi a morire ma non a ritirarsi.
Alle ore 21 sospesero gli attacchi. La giornata si chiudeva con una brillante vittoria italiana conseguita
a durissimo prezzo.
«Nella zona ad occidente di San Donà, l’avversario tentò una forte azione contro Losson.
Arrestato una prima volta dal nostro fuoco rinnovò per ben quattro volte l’attacco finché,
esausto per le perdite eccezionalmente gravi subite, dové cedere di fronte all’incrollabile valore dei Sardi
della Brigata Sassari – 151° e 152° - validamente coadiuvati dal III battaglione bersaglieri ciclisti. Firmato: Diaz».
(Bollettino del Comando Supremo del 21 Giugno)
A loro si deve aggiungere la 1a Divisione di Assalto del gen. Zoppi, i Lancieri di Milano,
la brigata Bisagno e i Carabinieri della 33a Divisione.
Il 22 giugno gli ampi salienti di San Pietro Novello e Meolo scomparirono in seguito ai nostri attacchi. La striscia occupata dagli austriaci si restrinse sempre più, mentre alle loro spalle i ponti crollavano sotto la furia delle nostre artiglierie, ed il nemico, disperando di poter mantenersi sulla destra del fiume, si decise ad iniziare il ripiegamento e riesce ad effettuarlo senza che le prime linee se ne avvedano.
Alle prime ore del giorno 23 il Comando del Corpo d’Armata comunicò che,
da informazioni date da prigionieri,
risultava che il nemico stava per ripassare il Piave e ordinò di inviare pattuglie
sul fronte della Divisione per conoscerne le intenzioni, tenendo le truppe pronte
per profittare di ogni occasione favorevole.
I primi nemici partirono alla chetichella, si avviarono verso l’ansa di Gonfo,
al ponte della ferrovia tra Croce e San Donà dove vi era una passarella nemica
il cui centro era stato spazzato dalla corrente per una ventina di metri.
Passavano come potevano ed il Piave se ne portò molti al mare. Il Comando di Divisione
ordinò che bersaglieri ciclisti, brigata Bergamo e Sassari raggiungessero il Piave
nel tratto di casa Gradenigo, Capodargine e Croce.
Sui pochi campanili rimasti in piedi le campane lungo la fascia dei combattimenti
suonarono come al Gloria. Toccò agli arditi del 26° reggimento marciare alla testa della colonna
attaccante. Quella mattina c’erano tutti coloro che la morte aveva respinto per otto giorni:
le indomite Sassari e Bisagno ripetutamente decimate; le uscite vive dall’inferno
di casa Marini Avellino e Ferrara; il 25°e 26° della Bergamo e ancora la Jonio, la Potenza
e la Bisanzio; c’erano gli invincibili Arditi Reggimentali; il famoso 23° reparto
che aveva continuato, con magnifica abnegazione, a combattere dal primo giorno
dell’offensiva; l’artiglieria della 33a Divisione; i bersaglieri ciclisti;
i bombardieri; l’81° della Marina; i genieri, i pontieri, in una parola l’invitta III Armata.
Gli austriaci inseguiti, rincorsi si accalcavano sui barconi e sulle passerelle.
Era la resa. Fossalta era interamente libera alle ore 18 del 23 Giugno.
Lo stesso accadeva più a nord, a Fagarè: le truppe che avevano resistito magnificamente
premevano il nemico verso la riva destra del Piave gonfio e veloce per le piogge ricevute,
privo di ponti e collegamenti con la sponda sinistra verso cui sono diretti.
Il Piave se li porterà, in gran parte, frettolosamente al mare e le loro perdite saranno
spaventose .
Cosicché alla pressione italiana gli austriaci, nella mattina del 23, resistevano ancora con bravura e cedevano il terreno a palmo a palmo. Sull’ala sinistra i nostri incalzavano e la pressione si trasformava in inseguimento. Nel pomeriggio del 23 le nostre truppe risalutavano il Piave da Candelù a Zenson e a Fossalta. Da Croce a Caposile il nemico resisteva ancora, ripiegava lentamente. Le nostre artiglierie battevano l’altra riva, allungando i tiri, flagellando ponti, barconi, passerelle inchiodando il nemico dove si trova, mentre gli aerei tricolori volteggiano sul fiume mitragliando, flagellando e bombardando implacabilmente. Gli ultimi reparti della V armata del colonnello generale Von Wurm ingombravano la strada lungo 405 Km., sotto la pioggia incessante che quasi mai si placò durante la battaglia. Erano i fantasmi di quello che erano quando passarono e il Piave ne ha travolto reparti interi portandoli al mare.
Il giorno 24, Musile vide il nemico tornare a ritroso, in disordine,
stravolto, affamato, senza armi né fardelli, per dirigersi verso la testa di ponte
da cui era sbarcato. Proveniva da Croce, da Millepertiche, dalle paludi,
da ovunque potesse impunemente passare.
Contro la linea di Capo Sile il nemico si era accanito con forze preponderanti.
La conquista sarebbe servita a imprigionare tutto l’arco del Piave
e di Taglio del Sile tra Zenson, Fossalta e Porte Grandi. L’attacco e la difesa
erano state estremamente tenaci e sanguinosi. Dappertutto il nemico, lusingato
dallo sbarco iniziale, aveva tentato di allargare l’occupazione.
La difesa era stata ostinatissima.
La sera del 24 gli italiani riconquistarono gli ultimi tratti occupati dagli austriaci
nel settore di Musile cioè tra Intestadura e il centro di Musile.
Alle ore 22 le ultime pattuglie della retroguardia nemica furono schiacciate
contro l’argine nel settore di Musile e si arresero:
la riva destra del Piave era libera da Nervesa fino all’Intestadura, e vigilata dai soldati italiani.
La lotta continuò tra Sile e Piave Nuovo.
Quanto a Croce... la strada dell’Argine San Marco era stata mimetizzata con frasche per renderla invisibile
alle ricognizioni nemiche.
Presso casa Franceschini si era installata la Croce Rossa.
Relax in attesa di una chiamata presso casa Franceschini
Qui sotto la medesima Casa Franceschini - divenuta nel frattempo Casa Barbirato - negli anni Settanta del XX secolo. Si noti il sistema di chiusura degli archi.
Molte foto di quei mesi le dobbiamo a un autista statunitense delle Croce Rossa, tal Harvey Ladew Williams, in servizio presso casa Franceschini nei mesi di giugno e luglio 1915. Il nipote di Harvey, Richmond H. Ackerman, si ritrova oggi in possesso di uno straordinario archivio fotografico al quale attingono tutti gli storici locali e grazie al quale un gruppo di appassionati di storia di Fossalta ha realizzato un interessante percorso iconografico dal titolo "Con gli occhi di Harvey".
Qui sotto è una foto di Casa Cento, allora estremo sud del territorio di Croce (e dal 1924 sotto la frazione di Musile in seguito all’amputazione delle Case bianche)
Casa Cento (sopra) e seconda linea vicino a Casa Cento (sotto).
(Archivio Ackerman)
Qui sotto infine ecco com’era ridotta la stazione di Fossalta (che, ricordiamo, è in territorio di Croce)
Qui sotto, infine, altre due foto dell’archivio Ackerman.
Esterno e interno della chiesa di Croce
Queste foto risalgono tutte tutte all’inizio dell’estate 1918.
Il pomeriggio del 6 luglio venne occupato l’argine destro del Piave Nuovo. Per sempre.
Alcune delle lapidi che in seguito saranno murate nel cimitero militare di Croce,
dimostrano che la gioventù d’Italia tutta era venuta a morire sul Piave, a Croce.
“Sottotenente / Piani Alberto / da Lugo / Caduto il 20 giugno 1918”
“Aiutante di battaglia / Angelo Rizzo / diede se stesso per l’Italia / che tanto amò. / Le fiamme rosse del 23 Reparto / in ricordo / 16 giugno 1918”
“Al caporale / Fernando Mulinelli / d’anni 22 / morto il 17 giugno 1918 / la famiglia dolentissima”
“Zde / odpociva obet abetove / valkj nas drakj a jediny syn / Josef Nedoma / spi sladce vydalen od suych rodicu a ceske / vlasti v daleke / s nami spratelene dzine / n. 18-1-97 – m. 19-6-18” (era un cecoslovacco, che, unitamente a tanti suoi compagni, combatteva nella Brigata Regina)
“Pallotta Ubaldo / soldato / 2 Regg. Bombardieri 104 gruppo / 312 batteria / nato nel 1897 / cadeva eroicamente / il 16 giugno 1918”
“Maresciallo / Arnaldo Bresciani / tutte le sue energie dedicò all’Italia / e per essa morì. / Il 23 reparto. d’assalto / memore / 16 giugno 1918”
“Sottotenente / Giovanni Forti / a 20 anni moriva per la Patria. / Le fiamme rosse del 23 Reparto d’assalto in ricordo / 16 giugno 1918”
“Lodovico Ottonello / sottotenente 152 fanteria”
“Tenente / Giovanni Simone / esempio di coraggio / d’entusiasmo e di fede. / Le fiamme rosse 23 Rep. in ricordo / 16 giugno 1918”
“Sergente / Redento Sicuro / e caporali Attilio Verdinosi e Francesco Vicentini / morirono gridando Viva l’Italia. / Le fiamme rosse del 23 Rep. d’assalto / ai loro, eroi. / 19 giugno 1918”
“Giovanni Talamini / soldato dell’81 reggimento fanteria / 29 comp. mitraglieri Fiat /
nato il 5 maggio 1895 / morto il 17 giugno 1918 / a Cà Malipiero / sul canale della Fossetta.
Giovanni Talamini... soldato dell’81° Reggimento fanteria della Brigata Torino.
Era morto in uno degli ultimi scontri della Fossetta.
La salma, rimasta due giorni insepolta custodita nell’oratorio di Cà Malipiero,
il giorno 19, cessato il combattimento, fu dai compagni portata alla sepoltura.
Giovanni Talamini, che altre fonti danno nato il 15 maggio 1895 a Venezia,
era fratello di Ennio ma soprattutto figlio di Gianpietro Talamini
(Vodo di Cadore, 1845) fondatore il 20 marzo 1887 del "Il Gazzettino" di Venezia
di cui era (e sarà) direttore (fino al giorno della morte,che avverrà il 20 settembre 1934).
A lungo il padre cercherà la salma del figlio, andata dispersa.
Passerà fra i soldati chiuso nel suo dolore, col volto di uno stoico.
Per giorni e giorni la madre nulla saprà della morte del figlio, e il padre si assiderà nei giorni successivi a mensa,
con simulata serenità, per brindare alla salute del figlio lontano...
“Marcuzzi Edido / di Pozzuolo / aiutante di Battaglia / da piombo nemico / colpito / cadeva sul Piave il giorno 15 agosto 1918 / nell’età di anni 28. / I parenti dolenti / posero”
“Le centurie lavoratrici / sulla strada delle Mille Pertiche / agli ignoti valorosi compagni / che prepararono col sacrificio / la grande riscossa / e qui dormono l’eterno riposo / giugno 1918”.
Croce e i paesi limitrofi erano distrutti, allagati, abbandonati. Ma l’esercito italiano sanguinosamente, disperatamente, miracolosamente aveva tenuto, ed era riuscito a ricacciare gli Austriaci oltre il fiume. Come se avesse cancellato l’onta di Caporetto, si sentì formidabile per capacità di recupero e prese coraggio; nelle primavera del 1919 avrebbe tentato la controffensiva. Gli Imperi Centrali invece, prodotto quel massimo sforzo, erano entrati in crisi: la perdurante crisi alimentare e di risorse energetiche aveva da mesi fatto montare le proteste tra i civili e nell’esercito, non si contarono più le rivolte entro i confini dell’Impero. Anche in Italia si percepì che la guerra era ormai alla fine; e poiché non era conveniente terminarla col nemico in casa, il temporeggiatore Diaz fu pressato ad anticipare all’autunno la controffensiva, che ebbe successo; ai primi di novembre giunse la richiesta di pace dell’Imperatore austriaco, il 4 novembre 1918 fu firmata la pace: era la vittoria.
Da San Lazzaro Parmense don Natale, sulla carta da lettere della parrocchia che aveva portato con sé, scrisse al suo vescovo:
DIOCESI DI TREVISO
PROVINCIA DI VENEZIA
PARROCCHIA DI CROCE DI PIAVE
Nell’anno trascorso a San Lazzaro don Natale aveva ovviamente
dato una mano all’Arciprete presso cui era ospite;
e quegli si dimostrò grato per quanto il paroco aveva fatto,
tanto che aggiunse in calce alla lettera:
...e il sottoscritto, appena il Don Natale sarà richia-
mato nella sua Diocesi di Treviso sarà rifor-
nito del certificato di buona condotta pel tempo
che ha adiuvato lo scrivente nell’esercizio
del Dovere Parle, che non potrà essere
che favorevolissimo sotto ogni aspetto.
Rilasciato il presente a solo scopo Religioso
S. Lazzaro Parmense 2 Xbre 1918
C...panioni D n Antonio
Priore S. Fr.
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Durante la guerra la contessa Rachele Sacerdoti vedova Gradenigo, crocerossina in qualche ospedale da campo delle retrovie, aveva conosciuto un colonnello ferito, al quale aveva offerto cure particolarmente affettuose. Tra i due era sbocciato l’interessamento e l’amore. Il colonnello era Riccardo Gioia.
Attilio Guseo, appena congedato da militare,
...raggiunse il resto della famiglia in Sicilia
e si fece amigo de un sior, un nobile, col quale andava anche a caccia,
e condusse per qualche mese na vita da siori.
«Ah che vita da siori che vén fat» avrebbe raccontato ai nipoti.
«Tilio, vienne con mia» gli diceva il nobile, e con lui portava
a casa di tutto, perché quello era un mafioso.
Là Attilio e la Tonina persero un’altra figlia di due anni
a causa della influenza spagnola che stava mietendo vittime in tutto il continente.
[dai ricordi di Alma Granzotto]
Attilio pensava che solo il lavoro avrebbe potuto cancellare le disgrazie. Voleva rimettere in piedi più bella e più grande l’osteria che aveva prima della guerra.
Per una trattazione completa dell’argomento vedi
CARLO DARIOL - Storia di Croce Vol. 2 - DON NADAL, EL PAROCO DE CROSE
Edizioni del Cubo, 2016